Silenzio. Con un minuto di doloroso raccoglimento dei garanti del processo di pace a Cambo-Les-Bains in Francia, s’è conclusa la “dissoluzione al rallentatore” dell’Eta. Perché nessuna parola può riempire il vuoto di oltre ottocento vite spezzate. «Per che cosa?», si è domandato lo scrittore basco Fernando Aramburu. «Per niente», è la sua risposta.
A 59 anni dalla fondazione per opera di un gruppo di studenti di Bilbao, ieri, l’ultima banda terroristica d’Europa ha cessato di esistere. Senza aver raggiunto alcuno dei propri obiettivi politici. In compenso ha lasciato dietro di sé una scia di sangue di 853 morti – questo il dato ufficiale del ministero dell’Interno spagnolo – e 6.389 feriti, senza contare gli esuli e quanti, per anni, sono stati sottoposti a minacce ed estorsioni.
Formalmente l’Eta si è sciolta per volontà propria. In realtà, dalla rinuncia alla lotta armata del 20 ottobre 2011 – anche questa in teoria volontaria –, l’organizzazione separatista è stata a malapena uno spettro che di tanto in tanto riappariva con sporadici comunicati per agitare il sonno della società spagnola. Non sorprende, dunque, che quest’ultima abbia accolto con indifferenza o tutt’al più fastidio la cerimonia di Cambo-Les-Bains, che ha certificato la scomparsa del gruppo. Eppure, il canto del cigno dell’Eta – al di là delle polemiche sulle “scuse a metà” dei leader indipendentisti e dei tentativi della banda di ergersi a rappresentante dei diritti dei baschi oppressi – è una buona notizia. Per la Spagna e per il mondo.
Quella che l’organizzazione vuole rappresentare come una libera scelta, in realtà, è una faticosa presa di coscienza di una sconfitta. Non solo e non tanto sul piano militare, di certo importante. Bensì morale e ideale. La competizione di idee e opzioni distinte ha prevalso sulla lotta violenta. La politica disarmata si è imposta sulle “ragioni del Kalashnikov”. Il nastro azzurro, indossato nelle manifestazioni di solidarietà con le vittime degli attentati, ha battuto il serpente con l’ascia, emblema degli etarras (gli esponenti del gruppo armato).
Nata sull’onda della repressione franchista delle autonomie e delle opposizioni e alimentata dal pugno di ferro del regime, L’Eta non ha compreso – o non ha voluto comprendere – il “tempo nuovo” della democrazia. Non a caso, ha cercato di colpirla nei suoi momenti di maggior fragilità. Tra il 1979 e il 1980 – gli anni del referendum costituzionale e dell’instaurazione del primo governo basco dalla Guerra civile – la banda ha ucciso un terzo delle sue vittime: 244 persone.
Se alla sua sopravvivenza hanno contribuito alcuni errori nella lotta antiterrorista – in particolare la “tolleranza” nei confronti dei commando paramilitari anti-Eta, i cruenti Gal –, l’anticipo della fine sono state le “marce del dolore” di fine anni Novanta, dopo l’omicidio del giovane consigliere comunale del Partito popolare di Ermua, Miguel Ángel Blanco. E il grido unito della gente: «Non sono baschi, sono assassini».
Ora, però, perché la vittoria sia piena, la società spagnola deve affrontare un’ultima fondamentale sfida. Impegnarsi a fondo nel processo di “disarmo delle coscienze”. La riconciliazione, parola abusata, è un’urgenza politica. Oltre che una necessità diffusa. Essa implica passi difficili, a volte dolorosi. E chiama in causa la stessa politica, oltre alle varie istanze sociali, dalle Chiese alle organizzazioni sociali. La “dispersione” dei quasi trecento detenuti dell’Eta nelle varie carceri spagnole, molto lontani da casa, è solo la prima di una lunga serie di questioni da risolvere per promuovere la convivenza civile tra ex nemici. Per riprendere il dialogo interrotto dalle pallottole. È questa l’unica strada – insieme alla memoria e alla verità nella giustizia – perché una simile tragedia nazionale non si ripeta. Perché insieme al serpente velenoso periscano anche le sue uova. Nunca más. Mai più.