giovedì 29 giugno 2023
Il reportage di “Avvenire” tra le ragazze che riescono a studiare sotto il regime dei taleban. Così non si spegne l’istruzione nella società in cui la violenza domestica è quasi la regola
Ragazze afghane leggono il Corano a Jalalabad

Ragazze afghane leggono il Corano a Jalalabad - Ansa

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I piedi nudi scivolano sul tappeto. Nella giravolta i veli si gonfiano. Stretta a pugno, la mano destra di avvicina alle labbra, simulando un microfono. «Respect, oh yeah». Ripete il ritornello del celebre brano dei Bts con la stessa seria leggerezza di milioni di adolescenti che, dall’Asia agli Usa, impazziscono per la band sudcoreana. Le compagne segnano il ritmo battendo le mani. Una tipica scena di ricreazione in qualunque classe del mondo.

Meno che qui. Nel cuore dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, la musica è bandita, insieme alla danza e allo studio oltre le elementari, almeno per le ragazze. Questa, dunque, è la “scuola che non c’è”. Per trovarla, chi scrive deve lasciarsi Kabul alle spalle e procedere per qualche ora in direzione nord, fedele a una promessa bizzarra fatta da Avvenire nel corso della campagna per l’8 marzo: tenere un laboratorio di giornalismo a un gruppo di ragazzine in un Paese in cui alle donne non è permesso essere reporter se non in casi eccezionali. L’auto si inoltra tra le cime imponenti dell’Hindu Kush e i canyon ricoperti di “shirish”, una sorta di fiore di asfodeli il cui giallo intenso illumina le differenti sfumature di beige del paesaggio. Il «luogo dove brilla la luce» è chiamato questo frammento di Afghanistan su cui non è dato dire di più: la vaghezza sulle indicazioni geografiche e sull’identità dei protagonisti è fondamentale per garantirne la sicurezza. E consentire alla “scuola che non c’è” di continuare ad esserci. Qui tutto sfiora l’assurdo. Come “Neve nera”, il gruppo pop improvvisato dalle allieve.

O il disegno che una di loro tiene tra le dita. La matita ha tratteggiato il volto di una giovane, i folti capelli raccolti in una coda, le braccia e il collo scoperti. « Non mi somiglia? » dice indicando la lunga tunica scura che le fascia il corpo e la sciarpa scarlatta adagiata sulla testa. «Sono io. È la me che non posso essere». Il suo nome non è Nigin. Eppure chiameremo così questa giovane che vorrebbe, un giorno, specializzarsi in scienze politiche. Ricorda ogni dettaglio del momento in cui s’è vista mutilare del proprio sogno. Il 23 marzo 2022 doveva riprendere la scuola al termine delle vacanze d’inverno, si apprestava ad entrare in classe quando il preside le ha sbarrato il passo: «Tu non puoi». Poco prima, una nota del governo taleban aveva sospeso, fino a nuovo ordine, l’istruzione media e superiore per le studentesse. «Ho pianto per due ore ininterrotte.

Mia madre cercava di consolarmi. “Non durerà per sempre. Le donne afghane non si lasciano piegare”, ripeteva». Nigin non riusciva a crederci. Per sette mesi è rimasta chiusa a casa senza trovare pace. Ha cercato di imparare a cucinare, ha riempito quaderni di pensieri, fatto corsi online. Ma niente la placava. Alla fine ha perso la voglia di parlare, di mangiare, di alzarsi dalla stuoia che, nelle dimore spartane dei contadini locali, funge da letto. A Farida, aspirante medico, è accaduto lo stesso.

E a Mariam, che vorrebbe diventare scrittrice. O a Zary, musicista in erba. A restituire loro un orizzonte di speranza è stata “l’associazione”. Nata nel 2019 dall’intuizione di un operatore umanitario e allo slancio di otto giovani, questa organizzazione locale sembrava destinata a morire insieme alla Repubblica filooccidentale quando, il 15 agosto 2021, lasciata sola dalle truppe internazionali, essa si è sgretolata sotto l’urto dei taleban. L’anno scorso, invece, è iniziata la sua seconda vita, adattata al nuovo corso. In oltre una decina di distretti di quattro province afghane, l’associazione ha creato una rete di centri di apprendimento. Piccole realtà, radicate nelle comunità locali che le sostengono e le proteggono attraverso il rispetto di cui i consigli degli anziani godono da sempre di fronte alle autorità. Inclusi gli studenti coranici.

Queste “strutture artigianali” riescono così ad offrire corsi completamente gratuiti di inglese, computer e, ora, anche matematica e scienze a oltre tremila studenti. E, soprattutto, studentesse: sono il 65 per cento. Nel «luogo dove brilla la luce» sono addirittura il cento per cento. Novecento piccole donne. Shamim ha appena completato il programma standard. E ora frequenta un livello avanzato insieme a ventisette compagne. Sono le “professoresse junior”. Ciascuna, oltre a studiare, dopo un’apposita formazione, insegna i rudimenti dell’inglese alle bambine del proprio villaggio. Agglomerati di qualche migliaio di agricoltori e pastori sparsi fra le montagne, distanti da qualche decina di minuti fino a due ore dalla “scuola madre”.

«Ognuno può insegnare qualcosa a un altro, questo è il nostro principio guida – spiega Shamim –. Condividere con altre è il nostro modo di restituire il dono della conoscenza che abbiamo ricevuto». Il sapere così si diffonde con un effetto moltiplicatore inesorabilmente capillare che contagia famiglie e collettività. Senza il sostegno di queste ultime non sarebbe possibile trovare uno spazio “discreto”, ricavandolo all’interno della propria casa già sovraffollata o affittandone uno, grazie a collette improvvisate. Nei villaggi dove più forte è la pressione delle autorità, le lezioni si svolgono prima dell’alba, per non dare nell’occhio. «Sono orgoglioso del coraggio di mia figlia. Voglio che studi e realizzi i suoi desideri, per questo la sostengo anche se siamo poveri», dice Arush, un coltivatore di patate analfabeta come la moglie, Soraya. « Io non ho mai potuto scegliere. Chi comanda l’ha sempre fatto per me – aggiunge quest’ultima –. Vorrei che per Sabra fosse diverso». E, in effetti, lo è. Oltre alla scuola di inglese, la ragazzina si è inventata una palestra fai da te dove fa lezione alle amiche aerobica e danza, a dispetto del divieto di ginnastica per le donne.

«Per non far sentire la musica, mettiamo le cuffie», ride. Poi torna seria e aggiunge: «Ora tocca a te. Tu quali conoscenze puoi condividere con noi?». Inizia così il laboratorio di giornalismo dal titolo: uno sguardo femminile sull’Afghanistan. Divise per gruppi, le 27 “professoresse junior” propongono i temi per i progetti di inchiesta che poi svilupperanno nei mesi seguenti. C’è l’imbarazzo della scelta. Ognuna si è imbattuta in vissuti tragici: la vicina adolescente costretta a sposare un anziano, l’amica picchiata al mercato per il velo troppo succinto, la sorella vedova a cui il divieto di lavorare nella pubblica amministrazione ha tolto l’unica fonte di reddito per mantenere i figli.

«È la nostra realtà. Ma non vogliamo raccontarla come spesso fanno i media occidentali che ci dipingono come vittime. Vogliamo parlare della nostra resistenza», afferma Amina, mentre le altre annuiscono. «Conosco una ragazza che si traveste da uomo per guidare la moto con cui, una volta alla settimana, accompagna dal medico la madre, residente in un’area remota – aggiunge Eline –. Voglio raccontare lei. Queste sono le donne dell’Afghanistan». Qualcuna accetta di cimentarsi con il podcast, altre optano per il video. « Per prima cosa ci vuole una colonna sonora, qualcosa che ci ispiri – esclama Amina –. Magari un brano italiano, conosciamo “Bella ciao”». Grazie al cellulare e a Internet che, prima o poi, funziona, si trova la base e il testo, con traduzione in dari, la lingua più diffusa nel Paese.

«Una mattina, mi son svegliato…», intonano in coro. « Di che cosa parla? », domanda Sinjad. Non è facile condensare in poche frasi la storia della Resistenza al nazifascismo in Italia. «È una canzone di resistenza – s’illumina Amina –. Allora è proprio la nostra canzone!».

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