venerdì 15 dicembre 2023
La denuncia nel rapporto della Missione di assistenza Onu in Afghanistan (Unama) dedicato alla gestione dei casi di violenza di genere da parte delle autorità di fatto
Una donna in Afghanistan

Una donna in Afghanistan - Ansa

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Incarcerate «per proteggerle». È questa la sorte delle donne afghane vittime di violenza nel caso in cui non abbiamo nessun familiare che si prenda cura di loro. Dove prendersi cura significa, quasi sempre, perpetuare le violenze. La stessa destinazione, ovvero il carcere (fra)inteso come luogo di «messa al sicuro» per i fragili, tocca ai senza dimora e ai drogati. O meglio ad alcuni dei tossicodipendenti di Kabul, dal momento che la dipendenza da sostanze è diffusissima nelle campagne più disagiate. Non si dimentichi che l'Afghanistan era il primo produttore mondiale di oppio (con cui si fa l'eroina), scalzato solo quest'anno dal Myanmar.

Già prima che i taleban tornassero al potere, il 15 agosto del 2021, il tasso di violenza di genere era altissimo nel Paese dell'Asia centrale. Ad abbassarlo non era bastata la legge sull'eliminazione della violenza contro le donne entrata in vigore nel 2009. Da quando la fonte del diritto è diventata la sharìa la situazione è addirittura peggiorata. I centri governativi per la protezione delle vittime di abusi (erano 23) sono stati chiusi perché «inutili», dal momento che «il luogo della protezione delle donne è la famiglia» o meglio le femmine sono al sicuro con «il loro protettore maschio». Vale a dire, quasi sempre, il violentatore.

Mariti, padri, zii, fratelli. Violenze sessuali, ma non solo. La donna come oggetto di scambio, ceduta per ottenere soldi, favori o droga. Moglie, figlia o sorella trattate come schiave. Vessate con parole e atti. Umiliate. Percosse. Le denunce? A raccoglierle ormai sono solo funzionari maschi, da quando le femmine sono state estromesse dal lavoro. Difficile che una donna arrivi a sporgere denuncia.

Se la vicenda è così eclatante da diventare nota alle autorità, il provvedimento più comune è la «ricerca di riconciliazione». Avviene così quando il ricovero ospedaliero in conseguenza di lesioni o fratture non sia spiegabile con la solita scusa dell'incidente domestico. Nella maggior parte dei casi l'ultima parola è affidata al consiglio locale degli anziani, tutti maschi, che chiede al violentatore l'impegno a proteggere la vittima. «Per il bene dei figli, la famiglia deve restare unita» sostiene l'ideologia talebana. Anche quando ciò significa per la donna una vita di torture, se non la morte (subita o autoinferta per disperazione).

Se il protettore maschio non c'è, o se è lampante che colei che gli venisse affidata andrebbe incontro a morte certa, allora sarà cura del regime proteggere la vittima: in cella. Dichiarati illegali i centri antiviolenza, definiti dal regime «retaggio della cultura occidentale», il carcere viene considerato l'unico «luogo sicuro».

Per la stesura del Rapporto l'Unama ha intervistato non le donne che hanno subito violenze, pressoché incontattabili, bensì gli stessi funzionari del regime nonché i capi di fatto della polizia, del ministero di Giustizia e di quello per la Propaganda della virtù e la prevenzione del vizio. Per un totale di 158 colloqui condotti in 30 delle 34 province afghane tra l'agosto 2022 e il marzo del 2023. I reati contro le donne denunciati più frequentemente sono l'omicidio e lo stupro. Se non vengono uccise o quasi, difficile che possano aspirare al ruolo di vittima solo per soprusi o percosse.

Ma come escono dal carcere le donne abusate? Peggio di come vi sono entrate, denuncia il Rapporto. Colpevolizzate perché punite, ancor più devastate psichicamente, stigmatizzate dalla società.

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