mercoledì 11 maggio 2016
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C’è un gioco particolare che si propone ai bambini siriani delle tendopoli: su una grande mappa geografica devono cercare la loro città. «Io sono di Idlib», grida uno, e va a sistemarsi sul puntino corrispondente alla sua città. «Io di Aleppo», risponde un altro, e prende la sua posizione. Quando si chiede loro di provare a raggiungere un’altra città, si bloccano: ad Aleppo quello di Idlib non vuole andare perché lì ci sono i cattivi e viceversa. Il gioco entra nelle ferite di questa nuova generazione che, senza patria, sta smarrendo la memoria delle sue origini e con essa anche la possibilità di darsi un futuro. Quando un giorno scoppierà la pace, chi potrà ricostruire le comunità incenerite? Passa anche attraverso un semplice gioco, e da ciò che svela, l’a- zione che Ong come Avsi stanno realizzando per concorrere a sostenere i figli di un Medio Oriente in macerie. Ma un solo tipo di intervento non basta, serve un concorso di azioni diverse e il coinvolgimento di tutti. La posta in gioco è troppo alta, chiede di agire su più piani come protezione, educazione e formazione al lavoro, almeno. «Protezione» dell’infanzia è il nome tecnico che si dà alle forme di tutela dei bambini della guerra. Come Inaam, una ricciolina nata nel marzo 2011, quando scoppiò la guerra di Siria: ha trascorso tutta la sua vita in un campo profughi e non ha visto altro che quello. Sono progetti come un asilo di Erbil, realizzato con i fondi privati e la collaborazione di suore domenicane, frequentato da un centinaio dei figli di Mosul, con un obiettivo chiaro: risarcire con un po’ di normalità un’infanzia strappata all’artiglio del Daesh. Ai progetti di protezione si devono affiancare progetti di educazione formale e informale per i ragazzi in età scolare e di formazione al lavoro per i più grandi. Questi titoli si traducono in sequenze di tante azioni essenziali ma decisive. Un progetto realizzato grazie al fondo Madad (stanziato dall’Ue per l’emergenza siriana) e con una collaborazione tra soggetti diversi coinvolgerà oltre 40.000 piccoli siriani che saranno inseriti in scuole “ordinarie” (oltre cinquanta) di Libano e Giordania, Paesi in cui vivono da rifugiati. L’idea è quella di non creare più scuole “ghetto”, ma favorire il loro inserimento nel tessuto in cui la storia li ha condotti. Un processo che può fare molto bene a loro e ai compagni di classe. Favorire l’integrazione e il riconoscimento reciproco di questi allievi combattendo l’analfabetismo è strumento potente per contrastare il loro senso di esclusione ed emarginazione dal mondo, per lenire il senso di vuoto che spinge troppi giovanissimi nelle braccia dei terroristi. I progetti di formazione professionale dei più grandi, infine, puntano a preparare agricoltori, meccanici, parrucchieri, artigiani, informatici, figure che il mercato chiede. Come Sarah, una giovane siriana che frequenta una delle nostre scuole agricole in Libano e sogna di piantare un giorno un uliveto nella sua terra. Il punto è che questi bambini e adolescenti non sono solo il futuro dei loro Paesi, ma il presente. Chiedono un aiuto che sia centrato su ciò che è il loro bene adesso. Chiedono di essere accompagnati a trovare una ragione buona per cui valga la pena crescere e vivere. Ora. *Segretario generale Fondazione AVSI © RIPRODUZIONE RISERVATA Bambini siriani nell’area di Kobane al confine turco (Ansa)
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