venerdì 5 marzo 2010
La capitale, pur se risparmiata dagli effetti più devastanti del terremoto, non è ancora uscita dall’emergenza. Il 15% delle case nel cuore della città è senza corrente, l’acqua potabile manca in diversi quartieri. Ma la gente si rimbocca le maniche per aiutare la popolazione di Concepcion.
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    Le ferite si vedono. La cupola della chiesa di Nuestra Senora de la Divina Providencia, per esempio, sbriciolata al suolo a due passi dall’arteria principale che attraversa Santiago. O quelle della Cattedrale, anch’essa inagibile. O nel Barrio Bohemia, dove palazzi di grande dignità ma di concezione antica hanno ceduto pezzi cornicione, metope, lesene, frammenti di pietra precipitati fin dalla prima terribile scossa di sabato scorso, così come a venti metri dalla Moneda, il palazzo del governo, dove si transennano porzioni di marciapiede con l’onnipresente scritta «peligro», pericolo. E poi ci sono le ferite che da fuori non si vedono, la specchiera infranta nell’albergo in cui dimoro, le crepe nell’intonaco sulle scale. Piccole cose, a confronto con la strage di Concepcion, di Talca, di Curicò. Piccole e grandi ferite dell’anima che i cileni hanno imparato a curare in fretta, con una capacità di reazione che non è comune ma che a cinque giorni dal sisma già mostra la sua fibra. Il nostro viaggio nella capitale comincia a Vitacura, 80mila abitanti, municipalità dall’elevato tenore di vita, dove si addensano forse le migliori scuole di Santiago, i grandi alberghi, i grandi redditi, il business e la finanza. «Anche qui – confessa Fernando Raule, che abita poco distante – ci sono stati episodi di accaparramento. Ma non di saccheggio. Si trattava di pura psicosi, una paura collettiva del resto comprensibile. I supermercati si sono svuotati di ogni genere di prima necessità, non si trovava più un litro di latte. Ora si è normalizzata la situazione». Raule dice il vero. Ne visitiamo due, uno nel centro della città e uno a ridosso del grande mercato del barrio Rosas, uno dei più tipici di Santiago. La folla che i primi due giorni aveva costretto gli esercenti a chiudere è svanita, la gente fa acquisti moderati, niente scorte, niente più panico, nonostante una scossa che ieri i sismologi hanno stimato pari a 5,3 gradi, con epicentro nella costa di Valparaiso, a 115 chilometri dalla capitale, facendo temere l’arrivo di un nuovo tsunami. Ma è al “mercado de mariscos” dove si avverte il refolo sottile della normalità ritrovata: un anziano signore disputa all’infinito sul prezzo del “congrio”, che preferisce al merluzzo ma che pretende di avere allo stesso prezzo.«Ha sentito il terremoto ieri sera?» «Stavo ancora mangiando, non mi ricordo». È il pudore, credo, a fabbricare questa menzogna leggera, leggera come la brezza che lascia intuire in questo mattino di sole il dolce estenuarsi dell’estate australe. Passiamo dal Parco Uruguay, dove una piccola tendopoli attira la nostra attenzione. Sono dei giovani che hanno allestito una “carpa de ayuda”, un tendone dove si stanno assiepando abiti, cibo, utensili da cucina, generi di prima necessità da spedire a sud, dove c’è assoluto bisogno. Dice Daniel, che si è autoproclamato portavoce di questa pattuglia di volontari: «Prima eravamo solo in tre, adesso ci sono decine di ragazzi al lavoro. E abbiamo appena cominciato». Ne troveremo altre di tende della solidarietà sul nostro cammino. Anche a Vitacura, con un pubblico sensibilmente diverso: giovanissimi sicuramente risparmiati non solo dal sisma ma anche dai bisogni materiali, che smistano con fare professionale abiti, oggetti, conserve, bibite e confezionano frandi pacchi destinati alle famiglia, di qua “ropa hombre”, di là “ropa mujer”. E dire che Santiago, ancorché risparmiata dagli effetti più devastanti del sisma, è ancora lungi dall’essere uscita dall’emergenza: nel centro della città il 15% delle abitazioni sono ancora senza corrente elettrica, a Recoleta il 35% dei 150mila abitanti restano al buio, a Renca, Quilicura, Huechuraba manca l’acqua potabile; in totale 324 persone senz’acqua e mezzo milione ancora senza luce. Dice Carmen Fernandez, direttrice dell’Onemi, la Protezione civile cilena: «Santiago ha sopportato una scossa che avrebbe raso al suolo molte città del cosiddetto primo mondo. Ma la sua reazione è stata magnifica». Al di là della retorica, c’è del vero. A Providencia, municipio molto chic a nordest del centro, già all’indomani della prima terribile scossa le luci dei molti locali, dei ristoranti, dei wine bar erano di nuovo tutte accese, la gente usciva per strada, i giovani affollavano i tavolini all’aperto. «Ma non è un eccesso di edonismo – spiega Nieves Aravena, coordinatrice delle pagine sul terremoto di El Mercurio, il più influente quotidiano cileno –, bensì una radicata dimestichezza con la terra che trema. Si usa dire che nel corso di una vita a noi cileni toccano almeno due terremoti. Per me è il terzo. Ma non è detto che sia l’ultimo. Si impara a vivere e a sopravvivere, a gioire e ad essere solidali. Non mi prenda per una cinica, perché non lo sono, ma il terremoto è un grande maestro di vita, per tutti». «Naturaleza y impotencia», ha detto qualcuno a proposito del destino di chi vive su una terrazza sismica come questa.Oltre il barrio Brasil, nella parte vecchia della città ci sono delle famiglie accampate in piazza Yungay. La loro casa è inagibile, non sanno dove andare. Ma sono forse le poche in tutta Santiago a dormire all’aperto. Per loro forse ci sarà un’attesa molto lunga, come accadrà a Concepcion e in tutta la zona duramente provata dal sisma. Ieri il presidente cileno Michelle Bachelet – che oggi attende la visita del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon – ha dovuto riconoscere che occorreranno 3-4 anni per ricostruire il Paese devastato e almeno 30 miliardi di dollari, da richiedere in prestito alla Banca mondiale. Solo così il Cile ce la farà. Un Cile orgoglioso della propria diversità, e molto restio sulle prime a dichiararsi bisognoso di aiuto.Ma non è solo questione di orgoglio. Scrive il poeta Cristian Warnken, direttore della Escuela de Literatura di Santiago e amatissimo in tutto il Paese: «Dentro di me abitano tutti i miei antenati, quelli che morirono inghiottiti dalla terra, quelli che vennero risucchiati dal mare, quelli che divennero orfani, quelli che perdettero ogni cosa nel tremore senza fine, ma che tuttavia decisero di non allontanarsi da questa latitudine estrema e abissale». Scende la sera su Santiago del Cile. Nessuno sa se la terra tremerà di nuovo. Ma per i fortunati che vivono a queste latitudini c’è la consapevolezza che l’inferno, quello vero, sta molto più a sud.
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