mercoledì 20 dicembre 2023
In 44 milioni si sono registrati per le elezioni generali di oggi, ma in alcune zone, soprattutto nel Kivu, il voto sarà complicato dall’insicurezza. L’appello della Chiesa locale: «No ai tribalismi»
Manifesti elettorali sulle case di latta a Goma, nella regione Orientale del Nord Kivu

Manifesti elettorali sulle case di latta a Goma, nella regione Orientale del Nord Kivu - Reuters

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E' stata la guerra a definire i contorni della drammatica infanzia di Yassin Ishara Bahati, quella guerra che lo ha costretto a fuggire più volte dalla sua casa nell’est del Congo, la regione più devastata dai conflitti di questo gigante d’Africa in preda all’instabilità. Come milioni di congolesi, Yassin condivide oggi una tenda con i suoi tre fratelli in un affollatissimo campo profughi poco fuori la città di Goma, capoluogo della provincia del Nord Kivu, territorio tra i più ricchi di minerali, legname e altre risorse e, anche per questo, vittima delle avidità (interne e straniere) che scatenano la violenza di oltre cento gruppi armati. A 20 anni, Yassin è per la prima volta in grado di votare alle elezioni generali di oggi, quando riverserà anni di frustrazioni e speranze su una scheda elettorale. «Siamo scappati così tante volte e non abbiamo mai visto alcun cambiamento – racconta amaramente –. Non c’è un governo che ci abbia aiutato a vivere in pace e tranquillità come accade negli altri Paesi».

La situazione economica, la corruzione, la questione delle risorse minerarie e le violenze interne sono state al centro di una campagna elettorale che ha coinvolto 95 milioni di congolesi, i quali solo nel 2019, dopo 59 anni dall’indipendenza, hanno assistito al primo passaggio di poteri presidenziali, con un’elezione segnata peraltro da accuse di brogli e scontri. Soprattutto nell’Est nulla è cambiato, sottolineano in molti, denunciando l’incapacità del presidente uscente Felix Tshisekedi di contrastare decenni di violenza e di rafforzare servizi di base come sanità, istruzione, infrastrutture. Migliaia sono le vittime degli attacchi dei gruppi armati – e le recenti offensive dell’M23 nel Kivu hanno ravvivato le polemiche con il vicino Ruanda –, 7 milioni gli sfollati che vivono in campi senza acqua potabile, elettricità e in piena insicurezza alimentare. L’Onu, non a caso, descrive quella del Congo come la maggiore crisi umanitaria al mondo. E in molte zone, come Masisi e Rutshuru, l’insicurezza determinerà l’impossibilità, per molti, di votare: «Per questo è a rischio la stessa credibilità del voto», sottolinea il ricercatore Dino Mahtani. Giovani come Yassin, che fatica a sopravvivere guadagnando 2 dollari al giorno lavando motorini, indirizzano la loro rabbia verso i politici della capitale Kinshasa, che da Goma dista 1.600 chilometri ed è vista come un mondo a parte.

Oltre che per le presidenziali (non ci sarà ballottaggio), i congolesi sono chiamati a scegliere quasi tutti i membri del Parlamento e di diversi consigli municipali. Tshisekedi cerca un secondo mandato da presidente contro 22 rivali, tra cui anche il ginecologo Nobel per la pace 2018 Denis Mukwege, candidatosi con il sostegno di diversi sindacati e di molte organizzazioni della società civile ma che sembra avere poche chance di farcela. I principali rivali del leader uscente sono il veterano dell’opposizione Martin Fayulu, che 5 anni fa ha denunciato di essere stato il vero vincitore, e Moise Katumbi, ex magnate delle miniere. L’opposizione e diversi osservatori indipendenti hanno sottolineato che i ritardi nella compilazione delle liste elettorali e le tensioni ai raduni degli oppositori sono tra gli elementi che minacciano di inficiare la regolarità del voto, segnato, secondo l’Onu, da un clima di violenza. Il Carter Center, un gruppo di monitoraggio Usa, ha parlato di «un’atmosfera di sfiducia». «Il popolo congolese – ha detto la rappresentante speciale e capo della missione delle Nazioni Unite in Congo, Bintou Keita – ha una profonda aspirazione a una governance trasparente e inclusiva, a riforme, nonché a leader responsabili».

In una nota diffusa lo scorso 22 novembre, i vescovi locali hanno esortato gli elettori a dire «no agli opportunisti» e a coloro che sono «inclini al tribalismo, al nepotismo e alla compravendita di voti». Si temono scontri prolungati e ulteriori divisioni in un Paese che non ha ancora conosciuto il significato della parola pace e che Papa Francesco aveva visitato lo scorso gennaio, denunciando lo sfruttamento delle sue risorse e le sue brucianti disuguaglianze. Lo scorso anno il Congo ha estratto il 70% del cobalto mondiale, componente chiave, tra l’altro, delle batterie per le auto elettriche e degli smartphone. Le sue immense foreste costituiscono inoltre un patrimonio globale con pochi paragoni. Ciononostante, prevalgono povertà e conflitti. L’Onu ha stimato in 2,3 miliardi di dollari la somma necessaria per i suoi interventi umanitari nel Paese, raccogliendone poco più di un terzo, 851 milioni. Tshisekedi, 60 anni, si presenta ai 44 milioni di elettori registrati come la scelta della stabilità. Ma il malcontento è diffuso. «C’è un solo congolese che può dirmi di vivere meglio oggi rispetto al 2018?», va ripetendo l’oppositore Fayulu, che ha impostato la sua campagna sulla lotta alla corruzione.

«Non ho visto niente di positivo nell’uomo che ha vinto le elezioni cinque anni fa – ripete Yassin, che vorrebbe far ritorno nel suo villaggio di Kibumba –. Voteremo perché dobbiamo essere in grado di portare qualcuno che ci porti cambiamento e sviluppo una volta al potere». E nessuno, in fondo, può sottrarre a lui e ai suoi fratelli almeno questa genuina speranza.

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