venerdì 23 dicembre 2011
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​«Il segreto è la coordinazione», spiega l’energica leader, Norma Romero. Sono dodici ma si districano tra i pentoloni in perenne ebollizione come fossero una sola. Julia mescola i fagioli, Bernarda affetta il pane, Rosa frigge le uova. A Norma spetta il compito più delicato: dividere il cibo in 250 razioni e altrettanti sacchetti. Assicurandosi che ognuno contenga almeno una porzione di fagioli, una di riso, una di verdure e due bottigliette d’acqua. A volte, quando le magre finanze lo consentono, le “Patronas” – così le hanno battezzate gli abitanti, perché sono devote della Patrona, la Madonna di Guadalupe – si inventano aggiunte secondo i soldi e la fantasia: un po’ di pane dolce, frutta, una scatola di tonno o sardine. Ora, in periodo natalizio, mettono come extra dei piccoli “buñuelos”, i dolci tipici. Alle 12, nella cucina spartana, il fermento è palpabile. Alle 13 tutto dev’essere improrogabilmente pronto: in qualunque momento per Amatlán de los Reyes, un minuscolo paese di 1.500 abitanti nello Stato di Veracruz, può irrompere il “rantolo del Drago” o “dell’animale”. Così i messicani chiamano il fischio rauco che segna il passaggio del treno merci: un sarcofago di ferro stretto e lungo. Quasi un gigantesco coccodrillo metallico, o un Drago, appunto. La locomotiva non trasporta, però, solo mercanzie. Negli scompartimenti, viaggiano grano, cemento, mattoni, alimenti dall’estremo Sud della nazione, il Chiapas, fino alla frontiera settentrionale con gli Usa. Aggrappati al tetto o negli snodi tra un vagone e l’altro stanno, invece, i migranti. Circa mezzo milione di centroamericani, ogni anno, in fuga da violenza e miseria, percorre gli oltre tremila chilometri di territorio messicano nel disperato tentativo di raggiungere l’El Dorado americano. La maggior parte lo fa a bordo del “Drago”. O meglio dei vari “Draghi” che percorrono il Paese da un capo all’altro. Sui bus non possono viaggiare, in quanto irregolari. Ufficialmente non potrebbero salire nemmeno sui treni merci. Di fatto, però, nessuno glielo impedisce. Per generosità o, più spesso, in cambio di una tangente versata ai macchinisti e agli agenti migratori. Che li ignorano. Nel vero senso della parola: nessuno si preoccupa se sfiniti da dodici ore di tragitto – tanto dura in media ogni tratta – aggrappati ai vagoni, sotto il sole o la pioggia battente, qualcuno cade e si sfracella. L’unica forma di assistenza nell’estenuante percorso – che dura circa un mese – sono le circa 54 Case del migrante, create dalla Chiesa, o le strutture di qualche Ong. E l’azione dei volontari. Come le Patronas. Tutti i giorni, ogni volta che il “Drago” rantola, le dodici “farfalle coraggiose” – così dice la canzone che le ha dedicato una band locale – si precipitano alla stazione. E distribuiscono i 250 sacchetti con cibo, acqua e medicine, ai disperati aggrappati al treno. «Abbiamo iniziato il 4 febbraio 1995. Le mie sorelle erano uscite a comprare pane e latte – racconta Norma Romero -. Il negozio sta dietro la stazione: bisogna attraversare le rotaie per raggiungerlo. Al ritorno, si sono dovute fermare per lasciar passare il “Drago”. Alcuni migranti, appesi al tetto, hanno urlato loro: “Vi prego, dateci qualcosa da mangiare”. Le mie sorelle hanno lanciato loro i sacchetti con quello che avevano acquistato». Quel pomeriggio, le donne di casa Romero – madri, figlie sorelle, cugine – hanno parlato dell’accaduto. E hanno deciso di fare qualcosa. «Compriamo quello che possiamo. Spesso i negozi ci regalano gli avanzi. Non siamo ricche, ma non possiamo voltarci dall’altra parte. La gente chiama i disperati del “Drago”, “le mosche”, perché viaggiano attaccati al treno come mosche. Ma sono esseri umani, non merce da sfruttare». Quello che fanno invece i narcos. Il sequestro dei centroamericani è una delle industrie criminali più floride nel Messico sconvolto da cinque anni di narcoguerra: almeno 20mila ogni anno finiscono nelle mani dei malviventi. I migranti rappresentano un “buon affare” anche per poliziotti corrotti, funzionari senza scrupoli, trafficanti di esseri umani che offrono di accompagnarli in cambio di 7mila dollari e poi li abbandonano a metà strada. Perfino i negozi vicini alle stazioni raddoppiano il costo di bibite e tortillas per “le mosche”. «I centroamericani ci dicono che il Messico è il loro incubo peggiore. Noi cerchiamo di dimostrargli che questo sa anche essere un Paese solidale», continua Norma. Il rantolo annuncia il passaggio della locomotiva. Le Patronas affrettano il passo: in cinque minuti sono già lungo i binari. Pronte al lancio. «Alcuni macchinisti rallentano e perfino si fermano quando ci vedono per far rifocillare i migranti. Altri, però, accelerano o li obbligano a pagare per diminuire la velocità». Stavolta il guidatore decelera di sua iniziativa. I migranti – saranno una cinquantina – si sporgono dal “Drago” e tendono le mani. Sono stanchi, sporchi, laceri. Nessuno porta bagagli, fanno già fatica a tenere in equilibrio loro stessi. Nello sferragliare del “Drago” riescono solo a gridare: «Grazie», mentre afferrano i pacchi. «Mi raccomando, dividete con chi non riesce a prenderli», rispondono. Prendono i sacchetti avanzati e tornano a casa. Stanno però all’erta. Fra qualche ora il “Drago” sibilerà di nuovo – passano circa tre treni al giorno – e loro saranno lì. «Fin quando gli uomini viaggeranno appiccicati a un treno come mosche».
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