domenica 7 agosto 2011
Finiti il comunismo e l’incubo Hoxha, nessuno poté trattenere i ragazzi albanesi. Che ora raccontano ai figli la loro avventura, a bordo di navi cariche all’inverosimile dirette in Puglia. Dashamir, Hallulli, Enver: «Oggi non lo rifarei. Ma oggi non ho vent’anni...».
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La democrazia in Albania ha vent’anni. Nel 1991 finisce l’incubo Hoxha, durato quasi mezzo secolo, e iniziano le fughe degli albanesi verso l’Occidente: verso l’Italia in particolare e, in proporzione minore, verso la Grecia. Sbarchi dei clandestini e inizio del processo democratico sono collegati non soltanto per coincidenza temporale. La democrazia apre le frontiere o, almeno, consente di forzarle. Per l’Albania è però impoverimento e dolore. Vanno via i giovani, quelli che più degli altri avrebbero dovuto costruire la democrazia. Visar Zhiti, la voce più alta della poesia albanese, ha fatto proprio questo dolore. E scrive: «La nave-tomba gigantesca si mosse. Salpò. Fuggì sulle onde dell’avventura. La patria si scioglieva come il pianto delle mamme. Queste lanciarono fiori sulla sponda azzurra. E la notte si svegliano. Me misera, ho voltato le spalle al mare! Al figlio!». Quei giovani oggi sono grandi, e la loro disperata fuga la raccontano ai figli o ai nipoti.Passano 20 anni dallo stadio di Bari alla luccicante Bmw di Dashamir Citozi, oggi in Albania tra i più importati fornitori di articoli per cancelleria. Nel 1991 si viveva con l’orecchio a terra, pronti alla fuga. Dashamir (Dash per gli amici; come il detersivo, dice lui), la mattina del 7 agosto lasciò a Tirana la moglie Mira e i figli Ornela di 9 anni e Ori di 3. «La gente – ricorda – scappava con ogni mezzo verso Durazzo. Si diceva che partiva una nave per l’Italia. La polizia ci fermava, poi diceva: andate, andate...». Sulla strada per Durazzo saltò su un grosso camion russo che, carico di gente, arrivò ansimando fino al porto. Seppe poi che la sua famiglia fu additata dai vicini. I fuggiaschi, si diceva, erano traditori della patria e, dunque, anche Dash era un traditore. Lo difende ancora Mira che sente il racconto fatto mille volte: «La patria non c’entrava. Lo fece per me e per i figli». «Speravo – aggiunge Dash – che l’Italia, come aveva fatto con gli altri, accogliesse anche noi». Le cose andarono diversamente. Aveva fatto di tutto per fuggire dall’Albania, adesso avrebbe fatto qualsiasi cosa per scappare dallo stadio di Bari, dove, con gli altri 20 mila, era stato rinchiuso. Dash fu tra i pochi a sfuggire alla rete di polizia, ai controlli e agli elicotteri che volteggiavano su quella conca infocata. Vagava per la città. Alla periferia di Bari un giovane gli diede vestiti e una busta con pane e frutta. Dash aveva fatto capire che non era un delinquente. Raccontò dei figli lasciati a casa. L’uomo gli disse di fare attenzione. Poi aggiunse: «Faccio il carabiniere. Fino a un’ora fa ero di turno allo stadio. Lì non ti ho mai visto. E non ti ho visto nemmeno adesso». Sul giovane Ori, che adesso l’ascolta, la frase riportata suscita sempre meraviglia.Da tutti i paesini intorno a Durazzo la gente si mise in cammino. A Kavaja, Hallulli Njazi disse alla moglie che andava a cercare lavoro. Lasciò a casa la figlia Edlira di quattro anni e il più piccolo Bairam di sei mesi. Partì con l’amaro in bocca: «Chiesi a mio padre di baciarli da parte mia. Mi disse di non andare, però non mi fermò». A Durazzo l’aspettava la Vlora ferma nel porto. Era una bolgia. La nave nella notte si fermò in alto mare per più di un’ora. «Avemmo paura che la nave tornasse indietro. – dice Hallulli – era tutto buio. Poi sentimmo degli spari. Forse spararono per convincere il comandante. E la nave ripartì…»Erano 20 mila persone che si giocavano il tutto per tutto. Ne parla in un bar dove gli capita di incontrare i compagni di ventura. Può vantarsi di una cosa: Bairam, che allora aveva sei mesi, adesso lavora in Italia con un regolare permesso di soggiorno. «In un certo senso – dice Hallulli – lo deve anche a noi che sfidammo il mare e la fortuna. Siamo stati tra i primi, poi altri padri hanno tentato la stessa sorte per dare un futuro ai loro figli». Senza paura.Neppure Enver Sopi ebbe paura. In questo bar, i due siedono accanto. Ricordano e bevono birra. Enver aveva visto con i suoi occhi quelli che erano rientrati dalla prima ondata dell’8 marzo, sbarcati a Brindisi: «Ci dicevano che in Italia tutto era magnifico…». E adesso un’altra nave partiva da Durazzo. La mattina del 7 agosto Enver, che aveva 20 anni, si mise in cammino dal piccolo villaggio. Venticinque chilometri fino al porto con il cuore in gola. Ed eccola, finalmente. La nave, già piena all’inverosimile, s’era staccata di un centinaio di metri dalla banchina per impedire che altra gente salisse a bordo. Il giovane non esitò. Lasciò i 50 dollari che aveva in tasca a un amico e si tuffò in acqua. A grandi bracciate fin sotto la nave; qui si afferrò a una cima, e lo tirarono a bordo. I giovani erano tanti, c’erano anche donne e bambini, e perfino poliziotti che, invece di fermare i clandestini, erano saliti a bordo portandosi il kalashnikov. Halim Milaq, il comandante, ordinò di salpare nel tardo pomeriggio. All’alba erano davanti a Brindisi. Ma la Capitaneria non consentì di attraccare. La nave, allora, fece rotta su Bari. Enver la vide da lontano nella caligine: «Pensai – dice – di aver raggiunto il mio scopo. Finalmente potevo mettere i piedi per terra. Il mare mi ha sempre impaurito». Nessuno raggiunse il sogno che finì per tutti nel vecchio stadio comunale di Bari. Furono ammassati sotto un sole torrido e implacabile. «Dopo pochi giorni – ricorda Enver Sopi – eravamo stanchi. Era inutile soffrire ancora. Desideravamo una sola cosa: uscire da quell’inferno e tornare in Albania. Sfondammo le porte dello stadio, non per vandalismo o ribellione, ma perché eravamo stanchi, delusi e avviliti». Sopi ci ha provato altre volte, con i gommoni. «Oggi – dice – non lo rifarei. Solo perché non ho più vent’anni, e qui ci sono i miei figli e la mia vita». Si ferma un attimo e, indicandoci al cameriere, dice: «Ragazzo, porta una birra anche per lui».
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