sabato 4 aprile 2015
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Rosemary ha la voce che trema, non trattiene le lacrime. Dalle prime notizie della carneficina sta cercando di contattare la sorella che lavora nel campus universitario di Garissa, luogo della tragedia. Non si contano i morti ma la paura si legge nei racconti dei sopravvissuti e nella gente che continua ad assediare l’ospedale, per sapere disperatamente se i propri cari sono vivi.  Sono passate poche settimane dalla festa per la pubblicazione della graduatoria per l’ammissione all’Università, ed al posto dei sorrisi dei giovani del campus, ora c’è morte, sofferenza, incomprensione. Garissa è l’ultimo avamposto con una presenza significativa dei cristiani all’interno di una larga maggioranza di musulmani. Il campus che rappresentava, fino a qualche ora, fa il sogno di una società capace di costruire futuro insieme per i giovani cristiani ed i musulmani, oggi segna lo spettro di una comunità avvolta dal terrore. Una paura che nasce in un territorio di confine fra Kenya e Somalia ma che diventa il volto di una comunità tutta, incapace di comprendere quello che è accaduto.Eppure Rosemary non si sorprende per quello che è successo. Quando la sentiamo, è da poco successo il dramma e alla domanda se ci fosse nell’aria la percezione che quanto accaduto fosse prevedibile la risposta è secca: «Sì, non siamo ormai più tranquilli da diverso  tempo: lo scorso 17 marzo c’era stato un attentato a Wajir, costato la morte a cinque innocenti e che preannunciava un attacco più significativo».Ma questo è solo l’ultimo di una lunghissima serie di sanguinosi attentati che gli shabaab da quasi un decennio compiono su tutto il territorio somalo per imporre la sharia e, da qualche tempo, anche nel Kenya colpevole di aver inviato truppe in Somalia. «Il confine somalo-keniano è snodo di interessi politici ed economici, che contribuisce alla nascita di clan e bande armate che proliferano nella carestia e si alimentano dell’ignoranza dilagante – aggiunge Rosemary –. Ciò che ruota intorno a tutto questo dramma è povera gente che vive quotidianamente di stenti all’interno di case fatte di sterpaglia». Negli ultimi 20 anni ormai la situazione si è compressa tra la Somalia, che è divenuto un Paese sostanzialmente inaccessibile, e il Kenya che di fatto non gradisce gli spostamenti interni. La popolazione somala, originariamente nomade, deve oggi reinventarsi un nuovo modo di vivere perché non è possibile praticare la pastorizia con il deserto che avanza, le fonti di sostentamento inaccessibili. Il problema grave della siccità, quindi del calo dell’acqua e proporzionalmente la mancata distribuzione del cibo, porta alla carestia e ad una cronicità del disagio. La chiusura nelle ultime settimane del confine keniano ed il sequestro di camion che trasportavano beni alimentari (in particolare canna da zucchero) non ha fatto altro che aumentare la tensione ponendo un ulteriore goccia in un mare di povertà e fame.  A Garissa scatta l’ennesimo coprifuoco. L’esercito presidia le strade ed entra nelle case alla ricerca di terroristi. L’impressione che non basterà la taglia posta per la cattura del presunto ideatore dell’attentato per fermare l’avanzata di una stagione di terrore che ha bisogno di risposte sociali prima che militari.
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