giovedì 2 giugno 2022
«Kiev è lontana, là la vita sta tornando alla normalità. La guerra è qui in Donbass. Il mio terrore è che presto la comunità internazionale si scordi di noi e il bagno di sangue prosegua all'infinito»
Ludmilla con il piccolo Ivan nato due mesi fa nello scantinato-bunker trasformato in abitazione

Ludmilla con il piccolo Ivan nato due mesi fa nello scantinato-bunker trasformato in abitazione - Lucia Capuzzi

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Galina indossa un maglione pesante: fuori è estate, ma dentro, nelle viscere della scuola 62, è autunno inoltrato. Colpa dell’umidità che colpisce le narici prima della pelle con il suo inconfondibile odore di muffa. La lampadina accesa, la mattina, ricorda che in questo scantinato non entra mai il sole. «Nemmeno il rumore», però, racconta l’anziana, con gli occhi truccati di indaco nonostante l’età. Non deve aggiungere altro. Domani saranno cento giorni che Pyatikhatki, ultimo quartiere settentrionale di Kharkiv, convive con il tonfo sordo dell’artiglieria russa. Il confine dista appena ventotto chilometri ma l’esercito di Mosca è riuscito a piazzarsi ad appena dieci chilometri. Per questo, i militari sbarrano il passo a chiunque cerchi di proseguire verso nord, a Ruska Lozova, sulla prima linea.

«Ma siamo volontari!», cerca di spiegare Alexseij. Niente da fare. La distribuzione degli aiuti alimentari, stavolta, si ferma a Pyatikhatki. Galina si avvicina ma non prende subito il pacco. Prima ci tiene a dichiarare qualcosa: «Per favore quando torna in Italia, lo dica, lo dica a tutti: fermate la guerra. Magari l’Europa può. Fermate la guerra, salvate i bambini. Mi creda, lo so, ho visto il Secondo conflitto mondiale e so come va a finire: morte, fame, miseria».

La morte è quotidiana nell’oblast di Kharkiv: anche ieri quattro civili sono stati uccisi in un raid. E sugli abitanti si allungano sinistri gli spettri della fame e della miseria. Con almeno 2.229 edifici sinistrati solo in città – secondo i dati del governo –, almeno 50mila persone dormono negli scantinati di scuole, centri commerciali e fabbriche.

L’appartamento di Galina – all’ultimo di uno dei tanti palazzoni di cinque piani, questo appunto vuol dire Pyatikhatki – non ha più il tetto né le finestre né le pareti interne. «Il gas, però, l’hanno riallacciato qualche settimana fa. Potrei cucinare, Ma dove trovo il cibo?».

Degli ottomila residenti di Pyatikhatki, ne sono rimasti qualche centinaio. Cinquanta vivono nello scantinato di Galina. Gli alimentari sono chiusi o distrutti, perfino il famoso Istituto di fisica e tecnologia – dove, nel 1932, è avvenuta la prima fissione nucleare dell’Urss – è una carcassa pericolante. Il 6 marzo, un missile Grad russo l’ha centrato: fortunatamente, gli ispettori hanno assicurato che non c’è stata fuga di radioattività.

Per trovare un supermercato aperto è necessaria una lunga gincana per il resto della città. Galina è troppo vecchia per guidare e, in ogni caso, la benzina costa troppo. Perfino in centro, sulla popolare via Sumskaia, tutte le serrande sono chiuse.

Oltre tre mesi di martellamento costante hanno formato la produzione interna nella capitale industriale dell’Ucraina. Gli approvvigionamenti da Kiev sono lenti e difficili: solo un’autostrada è ancora percorribile e il caro-carburante fa lievitare il valore delle merci. «È difficile comprare qualunque cosa: vestiti, scarpe, ma il problema principale è il cibo.

I prezzi sono cresciuti in media del 15 per cento ma alcuni prodotti hanno duplicato o triplicato il costo. Il sale, dopo la distruzione del principale fornitore in Donbass, si paga dieci volte tanto», sottolinea Alekseij, farmacista prima del conflitto. E i soldi scarseggiano, ogni giorno di più.

Se in tutto il Paese, la metà della popolazione è disoccupata, a Kharkiv – dove fino al 24 febbraio viveva 1,5 milioni di persone – si parla dei due terzi. «O più. I ricchi se ne sono andati. Solo i poveri sono rimasti – prosegue Alekseij –. E i vecchi. Insomma, chi non aveva altro posto dove andare. Come sfamarli?».

Alekseij si è posto la domanda, per la prima volta, il 2 marzo quando, dopo aver portato moglie e figlia a Leopoli, si è domandato come essere utile. «Avevo l’auto vuota, Kharkiv era sotto attacco, mi sono detto: “Prendo qualche aiuto e lo porto”". A chi darlo, però?».

Una conoscente l’ha messo in contatto con Dima, piccolo imprenditore prima della guerra. «Abito a Roman, quartiere a lungo in prima linea. C’erano molti militari, siamo diventati amici. Hanno iniziato a chiedermi delle medicine, da lì mi è venuta l’idea...». Così è nato "Est-West", gruppo di una ventina di volontari, che raccolgono – a volte comprano di tasca propria – generi di primo soccorso e li distribuiscono. In auto, quando riescono a procurarsi la benzina o, il più delle volte, in bicicletta.

«Prima soprattutto farmaci, ora cibo», dice Dima. Si contano un centinaio di associazioni spontanee di ragazzi che si uniscono per dare una mano. “Ukranian eyes”, ad esempio, ha preso in affitto attrezzi da cucina e prepara trecento pacchi al giorno per i sopravvissuti. «Abbiamo aperto gli occhi, abbiamo visto la tragedia e ci siamo decisi ad agire», raccontano i fondatori: Nikolaij, produttore di bici, Slava ed Erik, entrambi avvocati, e Alekseij, impiegato. «Dovremmo dire ex. Siamo tutti "a riposo" dai rispettivi impieghi. Però non ci fermiamo un attimo». I bisognosi aumentano. Non ci sono solo i residenti rimasti.

Dai villaggi intorno, contesi fra i due eserciti, è arrivata una folla di profughi, ingoiata negli scantinati della “prom-zone”, la zona industriale. Tatiana è approdata nel bunker della Promsvyaz, fabbrica di apparecchiature informatiche, da Prudyanka subito dopo il 24 febbraio. Da allora, russi e ucraini si sono scambiati otto volte il controllo della piccola comunità rurale.

Olha era all’ottavo mese di gravidanza: Ivan è nato qui, il 24 marzo. Il piccolo dorme placido tra le braccia di Ludmyla, profuga di Berzruka. È stata evacuata a Kharkiv l’8 aprile e ha trovato rifugio nella Promsvyaz dove, ormai, dormono in ventuno, divisi in tre stanzini. Olha e Ludimila condividono lo stesso e quest’ultima, di fatto, fa da nonna a Ivan. «Almeno Olha può uscire a cercare qualcosa. Da due settimane il pacco ha smesso di arrivare.

«Forse i volontari avranno finito i soldi. È sempre così: prima, quando esplode l’emergenza, si crea un’ondata di solidarietà: dalla capitale e dal resto del mondo giungono aiuti – conclude –. Ma, pian piano, poi, l’entusiasmo si spegne e i sopravvissuti vengono dimenticati. Kiev è lontana e là la vita sta tornando alla normalità. Ormai la guerra è qui e nel Donbass. Il mio terrore è che presto la comunità internazionale si scordi di noi. E questo bagno di sangue vada avanti all’infinito».

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