martedì 2 marzo 2010
Migliaia ai cortei e alle preghiere nei villaggi attorno a Mosul e a Baghdad. Ore di attesa e ansia prima della consultazione nel timore di nuovi attentati: «Le stragi sono legate alla politica: il mondo faccia pressione sui Paesi confinanti per garantire la stabilità interna».
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«È andata molto bene. Domenica, in tutti i nostri villaggi, c’è stata una buona partecipazione alle marce. È andata bene», commenta l’arcivescovo caldeo di Mosul, Emil Nona. La sua gente ha vinto anche la paura, ha risposto all’appello, ed è uscita lo stesso dalle case.Lunghi cortei nella cintura dei villaggi a maggioranza cristiana ma non nel centro di Mosul, troppo pericoloso. Assieme al patriarca Emmanuel Delli, in visita per quattro giorni nella comunità caldea dopo l’assassinio martedì scorso del siro-cattolico Aishwa Marosi e dei due figli nella loro abitazione, il giovane arcivescovo di Mosul ha guidato la preghiera nel villaggio di Karamles. Marce con migliaia di partecipanti anche a Hamdaniya, Bartalla e al-Qosh e negli altri centri a maggioranza cristiana. Un corteo silenzioso anche a Baghdad guidato dal vescovo Shlemon Warduni a cui hanno partecipato anche alcuni politici ed alcuni esponenti musulmani, mente ieri sera una veglia si è svolta a Kirkuk.Silenzio e preghiera in tutte le comunità dell’Iraq per ricordare i tanti morti della minoranza cristiana nel giorno in cui, esattamente due anni prima, veniva rapito l’arcivescovo Paulos Faraj Rahho, il predecessore di Nona ucciso dai sequestratori dopo 12 giorni di prigionia. Raccoglimento, ma anche silenziosa protesta civile della bimillenaria comunità cristiana per reclamare il diritto a vivere da iracheni in Iraq. «Sicurezza», «giustizia» e «libertà» le richieste di sempre e l’impegno a resistere al progetto – fomentato ad arte da alcuni – di confinare la minoranza in una enclave protetta nella piano di Ninive. Una ghettizzazione che sempre, con forza, la Chiesa irachena ha rigettato come pericoloso per la sua sopravvivenza.Il cardinale Emmanuel Delli durante la visita a Mosul ha incontrato le autorità locali e i vertici dell’esercito trovando «grande disponibilità» e l’intenzione di fare tutto il possibile per proteggere i cristiani. Promesse non nuove, anche se ora si aspettano i fatti per sopire le accuse lanciate da alcuni leader locali al governo regionale e ai peshmerga curdi. Ora si spera in un aiuto decisivo dal risultato che domenica sera uscirà dalle urne.Uno squarcio di serenità domenica dopo un’ultima ondata di persecuzioni in vista del voto del 7 marzo: nove vittime dal 14 febbraio, almeno 13 dall’inizio dell’anno fra i cristiani di Mosul. L’obiettivo minimo è arrivare a domenica per fare i conti delle schede e con il nuovo Iraq: giovedì sarà imposto il coprifuoco in tutto l’Iraq e fino a domenica forse l’ordine pubblico sarà assicurato. «Ma il problema non è certo di polizia o esercito, è un problema politico», dicono i cristiani di Mosul. Gruppi che cercano il potere e usano i cristiani come bersaglio simbolico. Le chiese da giorni sono presidiate dalle forze dell’ordine, ma per le strade si aggira invisibile il terrorismo fondamentalista. L’appello alla comunità internazionale si potrebbe tradurre concretamente in un intervento diretto a Mosul? «Assolutamente no, nessun intervento specifico in difesa di una singola città». Sarebbe un sancire sul terreno il progetto della Piana di Ninive. Piuttosto, «fare pressione sui Paesi confinanti come Iran, Siria e altri perché determinino un clima tranquillo in Iraq. Se la società irachena sarà pacifica anche a Mosul, dove la situazione è più difficile per la coesistenza di tante etnie». Mezze frasi in attesa del voto di domenica nella speranza che possa far vedere una luce di speranza. Intanto a Mosul ieri la situazione era apparentemente tranquilla, anche se negli ultimi giorni almeno 400 famiglie hanno abbandonato la città. «Chi ha potuto andarsene lo ha fatto, trovando riparo di fortuna in case di amici e parenti nei villaggi vicini», riferisce l’arcivescovo Nona. Ma nei prossimi giorni la situazione potrebbe degenerare in emergenza umanitaria. Nel convento domenicano di al-Qosh in ogni stanza sono ammassate insieme due o tre famiglie. «Mancano cibo e coperte: abbiamo chiesto aiuto a tutti, Onu compreso ma sinora solo due o tre associazioni hanno risposto», conclude l’arcivescovo. E per loro votare sarà impossibile.
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