mercoledì 11 settembre 2013
L’11 settembre 1973 le Forze armate attaccarono la Moneda, destituendo il presidente socialista, che nell’assedio si tolse la vita. Il regime instaurato successivamente fece 4mila morti e divide ancora quella che è tornata una democrazia forte e stabile. Il presidente Piñera ha invitato «a riflettere sugli errori del passato».
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«La pietra conservò il ricordo», recita un verso di Pablo Neruda, la voce più nota del Cile nel mondo. Eppure è arduo trovare nelle pietre bianco avorio della Moneda tracce del giorno in cui la sua immagine sfregiata dalle bombe degli Hawker Hunter fece il giro del mondo. Sono trascorsi esattamente 40 anni da allora, quando Esercito e Marina destituirono il presidente socialista Salvador Allende. Ne sono bastati 7 e mezzo al successivo governo militare, guidato da Augusto Pinochet, per cancellare dal palazzo i segni più vistosi del golpe. E restituirgli l’antica bellezza. Quattro decenni invece non sono stati sufficienti per rimarginare le ferite di quel periodo turbolento. Costato la vita a oltre 4mila persone tra morti e scomparsi. Ancora, a quasi 24 anni dalla fine della dittatura, non è facile per i cileni fare i conti con il loro 11 settembre, un giorno che inaugurò un lungo periodo di dittatura, repressione e violazione dei diritti umani. Tanto più stavolta che il 40esimo anniversario coincide con la campagna elettorale per le presidenziali del 17 novembre.Lo dimostra la scelta dell’opposizione di non partecipare alla commemorazione organizzata dall’attuale leader Sebastián Piñera. È la prima volta che un presidente di destra si trova a gestire l’anniversario. Piñera – che nel plebiscito del 1988 votò contro la permanenza di Pinochet al potere – ha voluto dare ampio risalto all’evento. È un’occasione di riflessione – ha affermato ripetutamente nelle ultime settimane – «sugli errori del passato affinché non si ripetano». Non solo. L’ex imprenditore ha sostenuto che «ancora c’è molta strada da fare per avere verità e giustizia» e ha invitato stampa e magistratura a compiere «autocritica per la complicità con la dittatura». Un’esortazione accolta dall’Associazione nazionale dei giudici che ha chiesto perdono «per non essere stata capace in quel momento storico cruciale di orientare, interpellare e motivare i membri dell’organizzazione affinché non desistessero dal compiere il loro dovere». Un’esternazione analoga è arrivata dalla Corte Suprema. Ad aumentare lo scalpore ha contribuito il “mea culpa” del senatore Hernán Larraín, storico sostenitore di Pinochet (al contrario del figlio Pablo, regista conosciuto in Italia per il film “No”). «Il Cile ha compiuto un faticoso processo di maturazione – spiega Claudio Rolle, storico della Pontificia Universidad de Chile –. Ogni decennale (tranne il primo, vissuto sotto la dittatura) è stato un passo ulteriore in un questo percorso. Nel 1993, l’11 settembre è passato sotto silenzio: erano i primi anni di democrazia, le lacerazioni erano ancora troppo dolorose. Nel trentennale si è iniziato un dibattito, limitato però alle sole forze anti-pinochetiste. Stavolta alla discussione si sommano esponenti del mondo conservatore, non più sulla difensiva. Il Paese ha voglia di comprendere». Un 11 settembre non più – o non solo – di “rabbia e di dolore” ma di confronto. «Un anniversario proteso al futuro», lo definisce Rolla. In cui, l’una e l’altra parte si sforzano di analizzare criticamente quel che è avvenuto. «Il salto di qualità è evidente. La destra comincia a smettere di giustificare repressione e autoritarismo agitando lo spettro del comunismo. La sinistra si dispone a fare i conti con le ombre degli anni del governo socialista (1970-1973). Il fatto cioè che l’esecutivo di Unidad Popular amministrò male il potere, aprendo le porte alla controrivoluzione. E questo non significa deresponsabilizzare i golpisti ma cercare di comprendere l’evoluzione storica – afferma l’esperto –. L’epoca di Allende ci ha lasciato in eredità lo slancio utopico, l’idea della possibilità di cambiamento. Al di là delle pressioni interne e internazionali, però, Unidad Popular mancò di strategia politica, non seppe gestire i rapporti tra le differenti forze della maggioranza, governò con un eccesso di volontarismo senza costruire un consenso ampio intorno al suo progetto. Errori che i cileni hanno pagato cari». E da cui hanno imparato. «Paradossalmente, il Cile è cresciuto in coscienza democratica proprio durante la dittatura. Perdere il nostro sistema di garanzie e libertà ci ha fatto comprendere quanto fosse importante – conclude lo storico –. Fare memoria vuol dire anche trasmettere questa coscienza alle generazioni che non hanno vissuto quell’11 settembre».
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