venerdì 5 maggio 2023
Nella città frontaliera di Gazientep sono circa 800mila. "Nessuno ha mai chiesto di noi, è come se non esistessimo"
Le macerie resistono a tre mesi dal terremoto in Turchia

Le macerie resistono a tre mesi dal terremoto in Turchia - Ansa

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«Le scosse di assestamento continuano ininterrottamente dal 6 febbraio. Da quella data a oggi nessuno ha mai chiesto di noi, è come se non esistessimo». Fatima è una vedova siriana di trentadue anni, madre di tre figli, che vive nella città turca di Gazientep da sei anni. Il sisma ha gravemente lesionato il suo appartamento, e per due mesi con la sua famiglia ha dormito in una tenda. «Siamo stati completamente abbandonati, né il governo, né le associazioni si sono mai interessati alla nostra situazione. Non abbiamo la possibilità di cercare altre case e ci sentiamo continuamente dire che questi sono i nostri ultimi giorni qui, che verremo tutti mandati via dopo le elezioni. Qualunque sarà il risultato, abbiamo paura».

Le preoccupazioni di Fatima sono molte e sono fondate. Nella città frontaliera di Gazientep i siriani sono circa 800mila, su un totale di due milioni di abitanti e questa presenza importante ha diversi risvolti, sia positivi, sia negativi. Da un lato, qui, si sono concentrati molti imprenditori siriani che hanno trasferito in città le proprie attività, contribuendo a far crescere l’economia locale e a darle una spinta sempre più internazionale. Dall’altra bisogna tenere in conto che la maggioranza di questi siriani appartengono a famiglie che, a causa della guerra, hanno perso tutto e che, qui, si barcamenano tra lavori saltuari e una burocrazia sempre più ostile. Quest’ultima fascia della popolazione è guardata con un’ostilità crescente ed è diventata oggetto di propaganda. Molti pensano che i profughi siriani siano mantenuti dalle autorità locali, che «tolgono ai turchi per dare agli stranieri». La realtà è che l’Unione Europea che si occupa del sostegno ai rifugiati. Ciò nonostante, anche in campagna elettorale la questioni dei profughi siriani è stata ampiamente strumentalizzata, con tutti i partiti che, seppur con linguaggi diversi, hanno parlato di rimpatri forzati. «Non ci siamo mai sentiti tanto vulnerabili, nemmeno in guerra. Abbiamo temuto di morire durante il terremoto e nei giorni successivi, ogni volta che c’era una scossa di assestamento. Abbiamo subito discriminazioni anche nei momenti peggiori, è stato incredibile. Siamo un popolo che non ha più un posto dove andare».

Mohamed lavora in un ristorante del centro storico, non lontano dalla rocca che il terremoto ha gravemente lesionato, con il crollo di alcune pareti. «Ci sentiamo in balia degli umori della politica e dopo aver ricostruito qui con gran fatica le nostre esistenze, potremmo perdere tutto da un momento all’altro. Per molti siriani il rimpatrio è una minaccia, perché si rischia di essere imprigionati o uccisi se si viene riconosciuti come oppositori. Il problema, inoltre, è che in Siria si sono diffuse povertà e disoccupazione e nessuno se la sente di portare la propria famiglia in un contesto del genere».

Chi ha perso la casa in Turchia a causa del sisma è terrorizzato all’idea di dover tornare forzatamente in Siria, come vorrebbe oggi buona parte della popolazione locale. Il sisma ha accentuato una guerra tra poveri che anche la crisi economica ha ulteriormente aggravato.

Dall’inizio della guerra in Siria sono state inoltre approvate una serie di norme ad hoc che stanno rendendo la vita dei profughi difficili, anche in questa circostanza. I siriani, ad esempio, non possono essere più del 20% degli abitanti di un certo quartiere. Residenza e domicilio devono coincidere, altrimenti si perdono molti diritti, persino quello di ricevere il sostegno della Mezza Luna Rossa. Questo obbliga molti rifugiati a restare in case pericolanti o in tende pur di non vedere svaniti i già pochi diritti garantiti.

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