venerdì 25 novembre 2011
​C’è ancora un pupazzo issato in cima al pennone nel luogo-simbolo della rivolta, però ha cambiato colore: non è più nero come il fantoccio dell’ex rais che penzolava in febbraio, bensì verde, come l’uniforme del comandante delle Forze armate.
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C’è ancora un pupazzo issato in cima al pennone di piazza Tahrir ma ha cambiato colore: non più nero, come il fantoccio simbolo dell’odiato rais che penzolava nei giorni di febbraio, bensì verde come l’uniforme militare. «Erhal! Erhal!», Vattene!, vattene!, grida la folla all’indirizzo del generale Tantawi, il capo del Consiglio supremo delle Forze Armate divenuto l’obiettivo polemico di quella che già viene definita «la seconda rivoluzione» egiziana. «Ma questa volta tutto è più difficile», sospira Mustafa Raghey, volto stanco e assonnato che spunta fuori da un camice bianco sporco di sangue in mezzo all’ospedale da campo allestito sulla Sannaya, la grande rotonda al centro della piazza tornata a riempirsi di tende.Mustafa è un regista arrivato qui sabato, all’inizio della protesta, con l’intenzione di girare un documentario. Si è ritrovato a fare l’infermiere suo malgrado, prestando le prime cure ai numerosi feriti provocati dalla durissima repressione delle forze dell’ordine. «Una reazione spropositata che non prelude a nulla di buono», dice scuotendo la testa. «Nessuna scusa e nessuna condoglianza sarà accettata». È la risposta di 65 movimenti e personalità pubbliche al Consiglio supremo delle Forze Armate, che ieri si è scusato per le 38 persone decedute nel corso delle scontri degli ultimi giorni al Cairo e in altre città dell’Egitto. «La giunta militare ha fallito nella gestione del periodo di transizione e deve lasciare il potere ad un governo di salvezza nazionale», una richiesta condivisa da tutti i manifestanti di piazza Tahrir. Non c’è aria di smobilitazione anche se, dopo cinque giorni di duri scontri ieri c’è stata finalmente una tregua, in attesa della grande manifestazione di domani. L’esercito ha usato barre di metallo e filo spinato per costruire barricate separando manifestanti e polizia nelle strade laterali che dalla piazza conducono al vicino ministero dell’Interno. La battaglia più furiosa ha avuto luogo sulla via Mohamed Mahmoud, il cui accesso ora è bloccato da un servizio d’ordine organizzato dai dimostranti per impedire violenze e disordini. «Sono stati loro (i reparti speciali di sicurezza, ndr) ad attaccarci, con l’evidente scopo di fare irruzione tra la folla e di sgomberare la piazza», racconta Abdel Aidly, circondato da un nugolo di adolescenti dall’aria spavalda. Sembrano essere loro i nuovi protagonisti della rivolta, accanto ai giovani intellettuali e professionisti che avevano animato la rivoluzione di febbraio e che oggi sono tornati a protestare contro la giunta militare. «Il popolo vuole la caduta del feldmaresciallo!» è lo slogan che risuona ripetutamente come una sorta di rito propiziatorio. Lo stesso grido veniva lanciato contro Mubarak ma in questi giorni il «maresciallo» ha sostituito la parola «regime». Rispetto ad allora sono cambiati colori e umori. Domina il rosso sangue, immagini truculente riprese dai fotoreporter che s’aggirano nelle tende degli ospedali da campo, tra brandine dove giacciono persone ferite da strane pallottole ricoperte di gomma ma riempite da palline di ferro. E ci sono numerosi intossicati da un gas «altamente nocivo per il sistema nervoso che non siamo ancora riusciti a identificare», mi dice Tarik Salem, un medico che ha visto morire tre suoi colleghi, due per arma da fuoco ed uno per soffocamento. Di questo strano gas ne ho fatto personale esperienza l’altra sera, recatomi in piazza Tahrir durante gli scontri e costretto a rientrare di corsa in hotel per un terribile mal di testa. E mentre fuggivo nel mezzo di una folla in preda al panico, ho visto negli occhi di chi mi circondava tanta rabbia e paura, non la determinazione tranquilla delle giornate di febbraio. E non c’è unità tra i dimostranti. Me ne accorgo parlando con Abu El Ezhariri, uno dei candidati di spicco della lista elettorale «la Rivoluzione continua» che raccoglie varie formazioni laiche e progressiste. «Caduto Mubarak il regime si sta rafforzando mettendo assieme militari, ex membri del vecchio apparato repressivo e integralisti islamici» è la sua analisi, interrotta dalle contestazioni di un gruppo di barbuti. «È falso, noi siamo salafiti e siamo qui in piazza Tahrir a protestare contro il Consiglio delle Forze Armate», grida uno dei più scalmanati con aria aggressiva. Ci tiene a marcare le differenze con i Fratelli musulmani che hanno deciso di non prendere parte alle manifestazioni di protesta e vogliono mantenere il dialogo con Tantawi, visto come il garante delle elezioni che inizieranno lunedì prossimo. Diretti concorrenti della Fratellanza, i salafiti si battono per una rigida applicazione della legge coranica e per uno Stato islamico. Sono scesi in piazza anche loro, così come un gruppo che innalza un cartello dove sta scritto «Musulmani e cristiani, uniti nella lotta. Se Dio è con noi chi sarà contro di noi?». Si vedrà oggi, nel venerdì della protesta proclamata contro la giunta militare.<+copyright>
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