domenica 20 novembre 2022
Il no dei "petro-Stati" ha impedito tagli forti alle emissioni e "salvato" le fonti fossili. L'accordo, però, per la prima volta, crea un fondo per ripagare i danni ambientali ai Paesi vulnerabili
Giovani di tutto il mondo manifestano per i risarcimenti ai Paesi poveri a Sharm el-Sheikh

Giovani di tutto il mondo manifestano per i risarcimenti ai Paesi poveri a Sharm el-Sheikh - Reuters

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"Non è abbastanza" perché "il pianeta è ancora in rianimazione". António Gutéres, segretario generale delle Nazioni Unite, ha sintetizzato in una frase il sentire di molte delegazioni al termine della maratona negoziale di Sharm el-Sheikh. L'accordo finale è arrivato con oltre trenta ore di ritardo sulla tabella di marcia, al termine, di una notte di trattative senza sosta e di una plenaria all'alba. A lasciare con l'amaro in bocca soprattutto Usa e Ue è il mancato passo avanti rispetto al Patto di Glasgow. Il testo conclusivo salva la soglia degli 1,5 gradi entro la quale contenere l'aumento delle temperature alla fine del secolo. Un traguardo non scontato, ha ribadito il presidente del vertice, l'egiziano Sameh Shoukry, con l'ultimo filo di voce, nella conferenza di presentazione mattutina. L'azione di lobby posta in essere dall'Arabia Saudita e gli altri "petro-Stati" ha impedito l'adozione di decisioni sufficientemente forti per raggiungere l'obiettivo. Bruxelles non è riuscita a far passare l'anticipo al 2025 - invece che il 2030 - per il raggiungimento del picco delle emissioni, come suggerito dall'Intergovernmental panel on climate change (Ipp). Né viene imposto alle parti un ulteriore impegno di tagli dei gas inquinanti: il documento si limita a chiedere a quanti non l'abbiano ancora fatto di presentare gli aggiornamenti. In base quelli attuali, però, il riscaldamento andrà ben oltre gli 1,5 gradi. Gli scienziati parlano di un incremento compreso tra i 2,5 e i 4 gradi: troppo per interi pezzi di mondo e i suoi abitanti. Sui combustibili fossili si resta fermi alla riduzione del carbone e dei sussidi inefficienti. Respinta la proposta di Usa, Europa e - fatto anomalo - India di estendere il calo anche agli altri idrocarburi,

Eppure questa Cop rappresenta comunque un passo storico. Perché ha messo nero su bianco il dovere del Nord del mondo - principale responsabile del cambiamento climatico - di aiutare finanziariamente i Paesi che ne subiscono le conseguenze letali. L'istituzione di un meccanismo finanziario per le "perdite e i danni" ambientali o "loss and damage" è una richiesta storica delle nazioni povere. Le prime formulazioni risalgono a trentun anni fa. Finora, però, era stato un tabù per le grandi potenze. Già a Glasgow, l'anno scorso, il muro di giustificazioni aveva ricevuto una prima crepa con la creazione di un meccanismo di dialogo sulla questione. Stavolta, la coraggiosa battaglia portata avanti dal gruppo dei G77 - capaci di formare un unico blocco negoziale, oltre le differenze politiche - ha raggiunto il risultato: il documento riconosce la creazione di un fondo. A decidere contenuti, contribuenti e beneficiari sarà ora un comitato che dovrà terminare i lavori, improrogabilmente, entro il 2024. La strada per la giustizia climatica resta, dunque, ancora lunga. Ma almeno la comunità internazionale ha cominciato a percorrerla

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