sabato 24 aprile 2021
Ricostruzioni deboli e fallaci. E c'è il fatto che il riconoscimento della persecuzione con tanto di morti e beni depredati, potrebbe costare milioni di dollari in compensazioni
A Yerevan, in Armenia, si ricorda il 106° anniversario dello sterminio degli armeni

A Yerevan, in Armenia, si ricorda il 106° anniversario dello sterminio degli armeni - Ansa / Afp

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Una guerra di indipendenza finita male, senza nessun massacro sistematico e mezzo milione di turchi che manca all’appello. Esiste anche una versione di Ankara del genocidio armeno, ma ha fondamenti deboli e una documentazione troppo scarsa per convincere la platea degli storici internazionali, con qualche rara eccezione. Gli armeni, che per tutti da oltre un secolo sono le vittime, per la Turchia sono i traditori. Almeno una parte di loro.

Quelli che, credendo alle promesse dei russi, che avevano fatto intravedere la possibilità di ottenere uno Stato di Armenia indipendente, si schierarono dalla parte dell’impero zarista e iniziarono a combattere contro quello ottomano, sul cui territorio avevano prosperato per anni, arrivando ad avere anche ruoli di primo piano alla corte del sultano.

Tutto questo succedeva in un momento delicato per la Sublime Porta. L’impero era debole, con le casse vuote e un modo di amministrare la cosa pubblica antiquato. Continuava a perdere territori, soprattutto fra quelle comunità dove nascevano sentimenti di indipendenza e autodeterminazione. Fra questi, sempre secondo la rilettura turca della storia, c’erano anche gli armeni che avevano, almeno in parte, iniziato a partecipare ad azioni eversive nei confronti di un impero morente. Dei sentimenti nazionalisti dei Giovani Turchi e dell’intolleranza crescente verso chi non era musulmano, la versione di Ankara non parla.

Ci sono, poi, quegli armeni, centinaia di migliaia, che vivevano sul territorio dell’impero e che nel giro di poco tempo si sono ritrovate vittime di una persecuzione senza precedenti. Anche in questo caso, la Mezzaluna ha la sua verità, che però fa acqua da tutte le parti. Secondo la versione data dal ministero degli Esteri turco, le carovane di armeni che attraversavano l’Anatolia, non furono il frutto di una deportazione, ma di una «relocation», uno spostamento di massa che aveva come scopo quello di proteggerli dal clima che si era venuto a creare, mentre i beni che lasciavano venivano saccheggiati.

Durante questo viaggio, sempre secondo i turchi, sarebbero morte al massimo 350mila persone. Decessi che non furono frutto di uno sterminio premeditato e organizzato nei minimi particolari, ma di «tragiche fatalità», dovute a malattie contratte durante il tragitto o ad attacchi di banditi, soprattutto curdi.

Le esecuzioni di massa, i campi di sterminio in cui gli armeni furono lasciati morire di fame, gli stupri di gruppo delle donne armene, i corpi seviziati dei bambini, le fosse comuni. Tutte cose che per i turchi semplicemente non sono mai esistite.

Una catena di certezze che non ammette dubbi, primo fra tutti il più logico, quello numerico: ossia che ne sia stato dell’oltre milione e mezzo di armeni che vivevano in Turchia, visto che oggi ne rimangono appena 70mila.

La risposta è che sono scappati all’estero, soprattutto in Francia e negli Usa e, guardando i numeri, mancano all’appello anche mezzo milione di turchi, uccisi dai russi e dagli armeni. Praticamente un genocidio al contrario. Una versione che la Turchia sta cercando di fare passare negli ambienti internazionali per non fare i conti con il proprio passato.

Un riconoscimento del genocidio armeno potrebbe costare milioni di dollari in compensazioni.




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