Quell'incubo militare che potrebbe presto finire in Myanmar
venerdì 2 aprile 2021

Chissà che questo ennesimo, rabbioso morso dei militari al povero popolo birmano, il loro popolo, quello che dovrebbero difendere e che invece continuano a massacrare, non sia davvero l’ultimo. Mentre l’inviato speciale delle Nazioni Unite, l’ambasciatore Christine Schraner Burgener lancia un accorato, quanto per ora inascoltato appello al Consiglio di sicurezza, a fare «tutto il possibile, tutto ciò che è giusto e che il popolo si aspetta» per evitare un «imminente bagno di sangue», la diplomazia cinese, cui persino gli Stati Uniti chiedono ora di esercitare la loro innegabile influenza, scopre termini come «transizione democratica» dimostrando con il suo evidente fastidio di aver anche lei subìto, più che provocato il golpe.

Un golpe che oramai sembra sempre più assodato essere stato provocato dall’ingordigia del generale Min Aung Hlaing, oramai prossimo alla pensione e al quale la “Lady” Aung San Suu Kyi (ieri riapparsa on line, apparentemente in buona salute, per una nuova udienza farsa in tribunale in cui le hanno contestato anche la nuova accusa di aver «violato segreti di Stato»), reduce dal nuovo trionfo elettorale, si era rifiutata di garantirgli una qualche sinecura, un qualche ruolo nel futuro del Paese. Qualcosa si sta muovendo in Myanmar, o Birmania come molti continuano a chiamarla (quel British Burma di coloniale memoria), qualcosa che potrebbe portare, speriamo presto e senza ulteriore spargimento di sangue, alla fine di una dittatura militare che dura, salvo brevissime pause, da quasi 60 anni. Ora siamo già a oltre 500 morti “ufficiali”, ma non solo tra la popolazione inerme.

Anche il famigerato Tatmataw, l’esercito che spara sul suo popolo, conta le sue prime vittime: almeno una ventina, dicono fonti locali. Il rischio di una vera e propria guerra civile è concreto, ed in alcune zone del Paese, dove un terzo della popolazione (54 milioni, quasi come l’Italia, ma vasta il doppio) appartiene a minoranze etniche da sempre in lotta con il governo centrale.

L’esercito di liberazione Kachin e quello dei Karen, due delle minoranze più agguerrite tra le 26 ufficialmente riconosciute e che complessivamente possono contare su oltre centomila uomini in armi, hanno cominciato a reagire alle incursioni dell’esercito e ai bombardamenti dell’aviazione, attaccando caserme e postazioni dell’esercito e stanno – tra mille difficoltà logistiche (il regime ha praticamente bloccato il wifi, limitando l’uso di Internet alla rete fissa telefonica più facilmente controllabile) e politiche – valutando la possibilità di formare un vero e proprio governo provvisorio sotto la sigla Crph (Committee Representing Pidaungsu Hluttaw, il “Parlamento” dell’Unione appena eletto e che il golpe ha impedito di riunirsi in cui la Lega democratica ha la stragrande maggioranza).

Una sorta di Coordinamento Nazionale della protesta che ha già raccolto online oltre 7 miliardi di dollari e che attraverso il suo portavoce, Salai Maung Taing detto «dr. Sasa», medico e filantropo, già di fatto accreditato alle Nazioni Unite, chiede di essere riconosciuto come governo provvisorio (gli Stati Uniti ci stanno pensando, pare, ma per ora non l’ha fatto ancora nessuno). Ha annunciato l’abrograzione dell’attuale Costituzione (approvata dai militari nel 2008, nella quale si riservano il 25% dei seggi parlamentari e la titolarità di tre ministeri strategici, Interni, Difesa e Frontiere) e fatto circolare la bozza di quella nuova. «Saremo finalmente una Repubblica federale – ha twittato il dr. Sasa, da luogo imprecisato (India?) – con un esercito federale e ampie garanzie per tutte le minoranze».

Tutte tranne i Rohingya, la minoranza di religione musulmana oggetto delle recenti persecuzioni, di cui nella bozza non vi è, a meno che non ci sia sfuggita, traccia. Non è un buon inizio, speriamo che porti almeno alla fine del terrore del Tatmataw.​

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