venerdì 6 gennaio 2012
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«Muslim missihi id wahda». L’anno nuovo in piazza Tahrir è cominciato al grido di «cristiani musulmani uniti», come una sola cosa. Un auspicio o forse una scaramanzia. Per qualcuno una realtà. Lo gridano i giovani della rivoluzione, chiedendo al contempo alla giunta militare di andarsene. «Yaskoy, yaskot, hokom elaskar!» Militari a casa. Il 2011 è stato l’anno della caduta di Mubarak. Il 2012 sarà quello della fine del potere dell’esercito. La rivoluzione non è finita, dicono nella piazza che è diventata il simbolo della lotta contro regime di Mubarak. In questi giorni, l’es rais è sotto processo e rischia la pena di morte, ma che la gente non si scalda più di tanto, giusto qualche manifestazione davanti al tribunale da parte delle famiglie delle vittime. Hanno già cancellato il suo nome dalla fermata del metrò della grande stazione ferroviaria di Ramses. Ora si chiama Al Shoadaa, i martiri di Tharir. Guardano avanti i giovani di Tahrir. Con speranza e qualche timore. «Chiedevamo democrazia, giustizia, libertà – dice Ghada, che è stata arrestata e picchiata dai soldati –; ora non possiamo accettare il potere dei militari né quello degli islamisti. La rivoluzione continua».Nabil è pure lui in piazza. Cristiano, ha condiviso con amici e coetanei musulmani, i momenti difficili ed esaltanti della caduta di Mubarak e poi le prime conquiste, la possibilità di parlare apertamente, il coinvolgimento dei giovani attraverso i social network. Ora tutti aspettano con ansia il 25 gennaio, anniversario dell’inizio della rivoluzione. Si prepara un’altra grande marcia, musulmani e cristiani insieme. Almeno un milione di persone, dice Nabil. Che non si è perso d’animo, anche se è appena uscito di prigione, dopo 65 giorni. «All’indomani della manifestazione dei copti, repressa violentemente dalla polizia, sono stato arrestato. Non avevo neppure partecipato. Quella volta i miei genitori erano molto preoccupati.E avevano ragione. Ci sono stati più di venti morti e quasi 250 feriti. Il giorno dopo se i militari ti fermavano e vedevano che eri un cristiano, ti arrestavano con accuse assurde». Nabil è stato picchiato violentemente, sbattuto prima in una prigione militare, poi in una cella di due metri per uno e mezzo, con altri nove, senza bagno. Dovevano dormire a turni per mancanza di spazio. Con lui, anche il blogger Alaa Fatah, uno dei più noti della rivoluzione. «Non ho paura – dice – continueremo a lottare». Intanto, però, si avvicina con qualche apprensione il Natale copto, che si celebra domani.  È ancora vivo il ricordo dell’attentato alla chiesa dei due santi di Alessandria, lo scorso anno. E poi gli attacchi alle chiese di Imbaba. Nessuno, però, sembra voler rinunciare a celebrare la ricorrenza. Il patriarca Shenouda per primo ha dichiarato che quest’anno sarà come sempre. I Fratelli musulmani, vincitori delle elezioni, hanno annunciato che proteggeranno le chiese durante le veglie di preghiera. Anche Hasham Abo Al-Nasr – segretario generale del partito salafita Al Nour, che ha ottenuto un successo elettorale clamoroso – dichiara con una buona dose di retorica che «i cristiani sono cittadini di questo Paese, come i musulmani, hanno gli stessi diritti e noi abbiamo interesse a proteggerli». Intanto, nel suo ufficio di Giza, a sud-ovest del Cairo, si prepara la copertura degli ultimi turni elettorali, con grande efficienza. Appaiono tutt’altro che sprovveduti. Lui, Hasham Abo Al-Nasr, è medico e ha lavorato per una fondazione caritativa. Parla con diplomazia agli stranieri, mentre i “suoi” hanno saputo parlare con grande convinzione alla gente. Il loro successo ora fa paura. «Questo ritorno al fondamentalismo – commenta padre Giuseppe Scattolin, missionario comboniano in Egitto da trent’anni – ripete uno schema presente lungo tutta la storia islamica. L’anima dura dell’islam identifica religione e politica. Ma questo ritorno all’identità fondamentalista in Egitto è legato anche ai finanziamenti che arrivano copiosi ai salafiti dall’Arabia Saudita». I primi a esserne preoccupati non sono solo i cristiani, ma anche tutti i musulmani moderati che vedono tradite le speranze della rivoluzione. Come Ahmed: «Ho un dottorato e non trovo lavoro e questi barbuti vanno in Parlamento. È un’ingiustizia!».
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