venerdì 14 agosto 2015
Oggi la cerimonia di apertura dell’ambasciata statunitense. La bandiera a stelle e strisce verrà issata dagli stessi marines che la ammainarono 54 anni fa
L’economista Mesa Lago: «L’embargo ha fallito. Rimuoverlo è cruciale»
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«La Rivoluzione ha avuto molta pazienza, la Rivoluzione ha permesso che una turba di spie travestita da diplomatici tramasse complotti nell’ambasciata statunitense (...). Ora, però, basta. Se vogliono andarsene, ebbene se ne vadano!». I giovani marines James Tracy, Larry Morris e Mike East non ascoltarono la roboante arringa con cui, il 2 gennaio 1961, Fidel Castro annunciò l’imminente rottura delle relazioni con Washington, formalizzata il giorno successivo. Il 4 gennaio, però, ai tre toccò ammainare la bandiera a stelle e strisce, prima di chiudere il «covo di spie», come il Comandante aveva definito la sede diplomatica Usa. Cinquantaquattro anni dopo, le storie dei quattro personaggi tornano a “incrociarsi”, a distanza. Oggi, saranno gli stessi militari – ormai in pensione – a tornare all’Avana per issare il drappo statunitense sul pennone di fronte alla sede diplomatica sul Malecón. Questa è formalmente in funzione dal 20 luglio. Cuba e Usa, però, hanno fatto coincidere la cerimonia ufficiale di riapertura con la visita di John Kerry nell’isola. La prima di un segretario di Stato da 70 anni, quando Edward Stettinius partecipò alla successione democratica alla presidenza tra Fulgencio Batista e Ramón Grau San Martín, nel marzo del 1945. In vista della storica giornata, anche Fidel Castro – formalmente ritirato – ha voluto riaffacciarsi sulla scena pubblica con un articolo sul quotidiano ufficiale Granma. Cogliendo l’occasione del suo 89esimo compleanno – i biografi, però, sostengono che potrebbe trattarsi dell’88esimo a causa di una manomissione del certificato di nascita da parte del padre –, il Líder Máximo ha tuonato contro l’embargo Usa. «A Cuba dovete un risarcimento equivalente ai danni che ammontano a molti milioni di dollari», si legge. L’ex presidente non ha fatto alcun riferimento specifico alla visita di Kerry e al ristabilimento delle relazioni diplomatiche. Il tono – sebbene più conciliante rispetto al 1961 – sembra, comunque, poco “amichevole”, in relazione al momento. Segno che – come aveva detto dopo l’annuncio del nuovo corso, lo scorso 17 dicembre – di Washington continua «a non fidarsi». Alla guida della Revolución, tuttavia, ora, c’è il fratello Raúl. E quest’ultimo è intenzionato – proprio come l’omologo Usa Barack Obama – a proseguire sulla via del disgelo. Una strada – come ha riconosciuto l’economista dell’Università dell’Avana, Esteban Morales – «complessa, tediosa, lunga». Che oggi arriva a uno snodo cruciale. «Con il viaggio del proprio segretario di Stato, la Casa Bianca esprime il totale appoggio al riavvicinamento in atto. Proprio come Cuba lo ha fatto, inviando a Washington il suo ministro degli Esteri, Bruno Rodríguez Parrilla», dice ad Avvenire Roberto Veiga, avvocato, fondatore del progetto di giornalismo indipendente Cuba Posible e storico collaboratore dell’arcidiocesi dell’Avana. L’agenda di Kerry è rimasta, fino all’ultimo, “riservata”. Secondo le informazioni diffuse ieri dai media cubani, la visita sarà corta: meno di 24 ore, senza pernottare. Dopo la cerimonia dell’alza-bandiera, il segretario di Stato parteciperà a una conferenza stampa congiunta con Rodríguez Parrilla. Un evento anche quest’ultimo inedito. Prima di ripartire è prevista, secondo quanto confermato dallo stesso Kerry in un’intervista alla Cnn, una riunione con vari oppositori. Questi ultimi, invece, non sono stati invitati alla cerimonia in ambasciata. Perché – ha spiegato Kerry – «si tratta di un incontro tra governi». Gli Stati Uniti, però, non smetteranno di «finanziare i programmi per la democrazia» e di sostenere il dissenso. Affermazioni che non hanno convinto l’ala dura dei repubblicani, con in testa il senatore Marco Rubio. Tanti hanno accusato gli Usa di «tradimento». Tale intransigenza rischia di lasciare a lungo la sede “riaperta” senza ambasciatore. La nomina di quest’ultimo dev’essere ratificata dal Senato, a maggioranza conservatrice. La battaglia cruciale, ora, dunque, per Obama si sposta al Congresso È sempre l’Assemblea l’unica a poter revocare l’embargo verso l’Avana. E, fino ad allora, ogni “normalizzazione” sarà mutilata.
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