lunedì 20 maggio 2013
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“Noi vogliamo crederci, non vogliamo permettere che la disillusione, la sfiducia verso la democrazia aumenti. Come missionari, come Chiesa, non faremo scelte di partito, ma ci adopereremo perché ognuno possa esprimersi e crescere grazie al confronto politico”.E’ questa la “promessa” che padre Piergiorgio Gamba, missionario monfortano da oltre 30 anni in Malawi, affida ad Avvenire a un anno esatto dalle cruciali elezioni presidenziali, legislative e amministrative. Padre Gamba è anche tra i fondatori della Montfort media, organizzazione indipendente editrice, tra l’altro, del bimestrale in inglese The Lamp, del quindicinale in lingua chichewa Mkwaso  e della tv Luntha.
Cosa vi aspetta da qui a un anno?Sono bastati 20 anni per far perdere fiducia nella democrazia. Durante la dittatura, fino al ’94, la gente ha pagato il suo impegno politico anche con il carcere. Negli ultimi due decenni, però, la situazione economica non è cambiata e la corruzione è aumentata: oggi il Malawi è una democrazia ma ha perso la gente, che comincia a non crederci o si iscrive ai partiti giusto per guadagnare qualcosa. Eppure la democrazia, benché fragile, è l’unica struttura che garantisce la partecipazione, la libertà, il rispetto dei diritti, la possibilità di esprimersi. Ma serve una democrazia “africana”, che veramente abbia al centro i valori della persona, della società locale, il dialogo, e rifugga campagne elettorali velenose che dividono il Paese. Da qui a un anno la speranza è proprio che vinca l’Africa, che vinca la democrazia.
Com’è cambiato l’essere missionari oggi rispetto a 30 anni fa?Siamo stati fortunati a vedere com’era la missione 30 anni fa, perché somigliava ancora a quella degli inizi; poi abbiamo visto i frutti della Concilio vaticano II, con la crescita delle Chiese locali. L’Europa e il Nordamerica inviavano qui molti missionari che la Chiesa locale riceveva, accettando un cammino di fede che poi ha prodotto sul territorio una Chiesa capace, seppur lentamente, di autocondursi in tutti gli aspetti, dall’avere catechisti locali alla formazione dei laici, fino all’autonomia anche per quanto riguarda il sostentamento del proprio clero. La missione, oggi, è quella di un’Africa evangelizzata che diventa evangelizzatrice, a chiusura di un ciclo. La missione, oggi, non è più il primo annuncio, non è più la guida della Chiesa locale, ma semmai è ancora più al servizio di essa, con il sostegno in particolari momenti che ancora la Chiesa locale non riesce a portare avanti. Come nel nostro caso, con la stampa e le comunicazioni sociali, oppure, di volta in volta, con l’aiuto nelle scuole, l’assistenza sanitaria, e tanto altro.
Com’è cambiata la partecipazione della gente?La partecipazione è cresciuta ed è grandissima. Siamo passati da una missione che veniva, portava, donava, vestiva, sosteneva gli orfani a una missione che vede la gente locale badare ai suoi preti, portare avanti le strutture della Chiesa, anche tassarsi in vari modi offrendo parti del raccolto o con le offerte domenicali, perché la Chiesa deve essere autonoma e autosufficiente. E questo non per autarchia, ma perché finché non sei autonomo non riesci a portare avanti proposte importanti.
Papa Francesco ha sottolineato di recente che la Chiesa non è una Ong. In cosa si distingue il vostro impegno sul campo da quello delle organizzazioni non governative?Il rischio è che qualcuno possa far confusione. Ma i progetti che noi realizziamo, anche grazie al sostegno dell’8 per mille e della Caritas, sono diversi da quelli sostenuti da organizzazioni internazionali che si fermano spesso alla realizzazione del pozzo o di altro accontentandosi della costruzione materiale. La Chiesa è diversa perché il punto principale è la salvezza: l’evangelizzazione è l’aspetto che guida tutte le attività. C’è un discorso di comunità, di condivisione, di fede, in cui il progetto non nasce più dall’esterno, ma dalla base, dalla gente, senza la quale nemmeno si inizia un’attività. E poi si tende a creare dei modelli di bontà e capacità che danno forza di volta in volta al villaggio, alle donne, alla gioventù, agli operai, in modo che tutti diventino autori, attori del proprio sviluppo.
Da parte vostra c’è sempre l’attenzione agli ultimi, a chi soffre più degli altri…Certo, e in questo senso la presenza della Chiesa diventa anche una presenza critica, perché spesso quando il governo parla di crescita e sviluppo si riferisce solo ad una fascia della popolazione. La nostra presenza al fianco degli ultimi, l’essere la loro voce, è ancor più fondamentale in un Paese povero come il Malawi in cui gli ultimi sono forse la maggioranza. Inoltre è da questi aspetti che si può giudicare la crescita vera di un Paese, non tanto dal tasso di cambio, dalla svalutazione della moneta, ma guardando a come sono trattati i detenuti, i degenti negli ospedali, gli orfani, che sono il domani della società. Trattarli male oggi o dimenticarli vuol dire avere una società di emarginati.
Come può la comunità internazionale aiutare il Malawi?L’aiuto esterno è importante, tanti Paesi non ce la fanno da soli, ma la comunità internazionale abbia il coraggio di lasciare che le scelte principali vengano dall’Africa. Il sostegno serve, ma la scelta del come, del dove, del quando, deve sempre più venire dalla comunità locale, per evitare “trapianti” paurosi che troppo spesso rischiano il rigetto. Una collaborazione è essenziale, ma sempre più alla pari, col coraggio dell’ascolto. Perché se si risolvono i problemi del Malawi, dell’Africa in genere, si risolvono anche una parte dei problemi della comunità internazionale stessa e questo aiuta il miglioramento di tutti.alfieri
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