sabato 11 novembre 2023
Visioni ideologiche, malintesi e pretesti alla radice di un vuoto che pesa. Ecco perché in Italia non sono mai stati varati sostegni strutturali per genitori e figli, ma solo interventi assistenziali
Le politiche per la famiglia vittime di ambiguità e fake news
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«È un problema di narrazione». Quante volte, parlando di famiglia, figli e natalità, abbiamo sentito o pronunciato questa frase? Non poche. Perché è vero, se oggi le nascite scarseggiano e la famiglia con figli fatica a trovare un riconoscimento pubblico forte e un varco nei progetti delle giovani generazioni, un motivo può essere individuato nel racconto quotidiano che contribuisce a rendere meno solida e affascinante l’immagine della dimensione familiare, la fatica che richiede e le gioie che regala.
L’orizzonte offuscato è sicuramente frutto del cambiamento che la contemporaneità sta affrontando, ma può risentire di uno sguardo alterato. Come avviene per il dibattito sulle politiche familiari, spesso condizionato da ambiguità, malintesi, visioni ideologiche, o addirittura fake news. Nel Rapporto Cisf 2023 - Politiche al servizio della famiglia (Edizioni San Paolo) abbiamo provato ad analizzare alcune di queste criticità.
La natura stessa delle politiche familiari è un argomento controverso e la loro efficacia si può verificare alla luce di quattro requisiti di base. Devono cioè essere: generose, destinando alla famiglia una quota apprezzabile della spesa pubblica in rapporto al Pil; universali, perché rivolte a tutte le famiglie; semplici, nel senso che la loro comprensione deve essere immediata; strutturali, ovvero non mutare radicalmente a ogni cambio di governo.
A discendere da ciò, uno dei primi nodi da sciogliere riguarda il tema dell’universalità. In Italia non è mai veramente passato il concetto che le politiche familiari, che vanno rivolte a tutte le famiglie, non sono (solo) interventi di contrasto della povertà, che invece devono riguardare categorie specifiche di persone. Quando un intervento a favore di chi ha figli introduce limiti di reddito eccessivamente rigidi, penalizzando i nuclei a partire già dal ceto medio-basso, non si sta più parlando di politica familiare, né di interventi con un obiettivo demografico. Eppure, questo equivoco continua a permeare le scelte politiche.
Una scusa che ha giustificato, negli anni, l’assenza di una politica familiare universalista ha spesso chiamato in causa il condizionamento culturale dovuto all’eredità fascista, in virtù della predilezione del Regime per l’incremento demografico e i figli da donare alla Patria. Il realtà si tratta di un pretesto funzionale alla giustificazione di un approccio che preferisce collocare al centro del sistema il singolo lavoratore a prescindere dai carichi familiari. Una prova di ciò la si può trovare guardando a come il legislatore ha interpretato la sentenza 179 del 1976 della Corte costituzionale contro il divieto di cumulo dei redditi: nelle intenzioni della Consulta, chiarite da interventi successivi, le correzioni avrebbero dovuto rendere giustizia fiscale alle famiglie con redditi non omogenei o monoreddito, nella pratica la politica ha scelto di escludere la dimensione familiare considerando esclusivamente il singolo individuo.
La scelta di misure limitate al sostegno delle sole fasce deboli si è spesso nutrita di slogan (“Ai figli di Berlusconi no!”), che hanno tuttavia mostrato effetti paradossali in termini di equità: per anni gli assegni familiari hanno escluso i lavoratori disoccupati e gli autonomi, e quanto ai “ricchi” lo Stato ha preferito concedere sostegni universali attraverso bonus edilizi o altro, quando non tagli al cuneo fiscale del coniuge più povero, anziché prevedere un sistema di sostegni legati al numero di figli. Insomma, continuare ad affermare che le risorse sono poche e che il bilancio pubblico è condizionato dall’austerità è un argomento ambiguo: il debito pubblico italiano continua a crescere assecondando altre priorità, lasciando che i costi di ciò si scarichino sulle generazioni successive. Le quali peraltro, in assenza di vere politiche familiari, si stanno assottigliando.
I falsi miti da smontare nel dibattito su nascite e famiglia non sono pochi. Si pensi all’idea diffusa da un ambientalismo nichilista e neomalthusiano per il quale ogni figlio che nasce è una tragedia per il pianeta. In realtà è vero il contrario, posto che una popolazione stabile o in aumento sia anche in grado di accrescere con lo studio il suo capitale umano. Sono gli stili di vita improntati all’iperconsumo dei Paesi con le performance demografiche più critiche i maggiori responsabili delle emissioni di CO2. La carbon footprint più elevata è una prerogativa delle fasce sociali benestanti nelle nazioni a reddito elevato: l’1% della popolazione più ricca al mondo produce oltre mille volte più CO2 dell’1% più povero. Chi lo spiega ai giovani e alle coppie che scelgono di non avere figli “per l’ambiente”?
C’è, nel dibattito sulle misure per la famiglia, un convitato di pietra, che potremmo chiamare “mercato”, la cui presenza spiega anche alcune prese di posizione discutibili. Si pensi a quando viene affermato che destinare risorse alla natalità non è conveniente in quanto un figlio che nasce sarà “utile” al sistema economico solo dopo vent’anni, mentre l’immigrazione è una risorsa immediatamente disponibile. Questa visione non riconosce in pieno il contributo di un figlio o una figlia per le risorse che il loro arrivo attiva nei genitori, come dimostrano molti studi, ma soprattutto cela un interesse strumentale nel momento in cui non è mossa da intenti solidaristici o da obiettivi di autentica integrazione, ma dalla necessità di imprese inefficienti di importare manodopera a basso costo. Il maggiore contributo alla natalità delle coppie immigrate, in assenza di un contesto sociale in cui la famiglia è veramente al centro delle attenzioni pubbliche, si esaurisce molto in fretta, come dimostra il declino dei tassi di fecondità che riguarda anche gli stranieri. Integrazione e sostegno alla genitorialità sono due obiettivi che non dovrebbero essere messi in contrapposizione.
Discorso analogo parlando di lavoro femminile. Quante volte si è sentito dire che il quoziente fiscale alla francese o lo splitting alla tedesca non si possono fare in Italia perché “disincentivano il lavoro delle donne”? In realtà, come dimostrano i dati sul mercato del lavoro in Francia e Germania, rispetto all’Italia, non sono i sistemi fiscali a contrastare l’occupazione femminile, ma la carenza di servizi di cura o di pratiche che permettono una vera conciliazione, fenomeni come il part-time involontario cui spesso sono obbligate le madri, gli impieghi sottopagati o precari che rendono antieconomico mantenere un lavoro quando arriva un figlio.
Affrontare nel modo corretto il tema dei sostegni alla natalità è cruciale in un Paese come l’Italia, in pieno declino demografico. Una sfida all’interno della quale in gioco ci sono i desideri delle persone, la libertà nel vederli realizzati, l’aspirazione alla felicità e a una vita ricca di senso.
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