mercoledì 14 luglio 2021
Le due risposte 'classiche' per il problema del sovrasfruttamento: tassazione e diritti di proprietà. Ma non risolvono il rebus
Stato e Mercato sono la soluzione alla tragedia dei beni comuni?
COMMENTA E CONDIVIDI

Mentre gli economisti si accorgono relativamente presto delle caratteristiche peculiari e dell’importanza dei beni pubblici, lo stesso non si può dire dei beni comuni. I beni pubblici sono quei beni dal cui godimento è difficile, legittimamente, escludere qualcuno e che, al contempo, non sono rivali, non si consumano, cioè, con l’uso: una passeggiata in un parco, l’istruzione, la difesa dei diritti di proprietà, etc. In un famoso articolo del 1954, il Premio Nobel Paul Samuelson, riscopre e ripropone agli economisti di lingua inglese questo tema che era già presente e considerato centrale in Italia alla fine dell’Ottocento, in particolare dai membri della cosiddetta scuola di finanza pubblica, Pantaleoni, De Viti, Mazzola, solo per citarne alcuni, ma anche in Germania nel lavoro di Sax e in Svezia con Wicksell. Il primo articolo accademico sui beni comuni, ed in particolare sui sistemi di irrigazione risale al 1911, anno in cui l’economista americana Katharine Coman (1911) pubblica un saggio intitolato Alcune questioni irrisolte dell’irrigazione ( Some unsettled questions of irrigation), sul primo numero dell’American Economic Review, quella che negli anni diventerà la rivista scientifica più prestigiosa tra tutte quelle che si occupano di temi economici. Questo articolo praticamente non avrà seguito tra gli scienziati sociali, se si esclude la notevolissima eccezione di Elinor Ostrom. Il tema rimarrà sostanzialmente marginale nella letteratura economica, praticamente fino ai giorni nostri. Una delle ragioni ha che fare con il fatto che il problema centrale dei beni comuni – quello dell’eccessivo sfruttamento – viene ricondotto dagli economisti a due approcci bene noti e studiati: quello delle 'tasse piguviane' (dal nome del celebre economista inglese Arthur Cecil Pigou), da una parte e quello dei 'diritti di proprietà', dall’altra, reso celebre dal lavoro di Ronald Coase. La tragedia dei beni comuni che abbiamo incontrata in precedenti interventi di questa serie, mette chiaramente in luce il fatto che l’origine del sovrasfruttamento e della fragilità dei beni comuni va ricercata in un disallineamento tra costi individuali e costi sociali.

Ogni individuo, con le sue decisioni di consumo del bene produce dei costi individuali, di cui tiene conto nel decidere quanto consumare, ma anche dei costi sociali che ricadono su tutti gli altri individui, ma di cui non si tiene conto nell’ambito delle decisioni individuali. Questo porta ad una sistematica sottovalutazione dei costi complessivi che le sue scelte determinano e di conseguenza ad una eccessiva perseveranza nel comportamento di consumo che raggiungerà livelli eccessivi. Se questo è il problema, la soluzione risiederà allora nel favorire il riallineamento tra costi individuali e costi sociali. Tale riallineamento si può ottenere principalmente in due modi, attraverso le tasse, appunto, o attraverso una ridefinizione dei diritti di proprietà. Nel primo caso, e questo è appunto l’approccio piguviano, ai consumatori viene imposto, attraverso una tassa, un costo addizionale che serve a far aumentare il costo individuale fino ad uguagliare il costo sociale, riducendo così l’eccessivo consumo del bene comune. L’approccio basato sui diritti di proprietà, invece, si fonda sull’idea che i problemi legati ai beni comuni nascano proprio dalla loro natura comunitaria. Per questo occorre eliminare il diritto all’accesso comune e sostituirlo con diritti di proprietà individuali che possano essere poi scambiati sul mercato. Da una parte quindi una forma di tassazione imposta da un’autorità centrale, lo Stato, e dall’altra una forma di privatizzazione che faccia in modo che anche quelli che un tempo erano beni comuni, diventino beni privati e che possano quindi transitare per il mercato. Questa visione dicotomica del problema, o meglio, delle sue soluzioni, o Stato o mercato, è assai coerente con la visione polarizzata che in quegli anni dominava la scena accademica e politica, di un ambito istituzionale diviso, da una parte, in scambi di mercato resi possibili dai diritti di proprietà ben definiti e animati da individui 'consumatori', e dall’altro, in una serie di proprietà pubblic

he gestite sulla base di una autorità gerarchica di origine statale, fondate sul consenso di cittadini 'elettori'. L’approccio pigouviano incentrato sul ruolo dello Stato e quello dei diritti di proprietà incentrato sul meccanismo di mercato, sembrano fornire una soluzione al tema dei beni comuni, alla loro intrinseca vulnerabilità e al loro delicato ruolo nelle società moderne. Sembrano, appunto. Perché in realtà il puzzle è sempre lì, a creare imbarazzo a economisti e scienziati politici, ma non solo. Non sarà infatti un economista, ma un biologo a riaprire il dibattito alla fine degli anni ’60. L’americano Garrett Hardin nel 1968 pubblica sulla rivista Science, un articolo significativamente intitolato The tragedy of the commons. È grazie a questo articolo che, sotto vari punti di vista, mette in discussione il framework teorico costruito nell’ambito della scienza economica, che il tema dei beni comuni ritorna in auge e acquista lentamente ma inesorabilmente tutta la centralità che oggi riveste sia nel dibattito accademico che in quello pubblico.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: