mercoledì 10 aprile 2024
Lo sfruttamento selvaggio delle risorse, che non tiene conto dell’ecologia, non può durare all’infinito Ma per superare le metriche attuali serve un passaggio di tipo culturale
Se produrre è questione di equilibrio
COMMENTA E CONDIVIDI

Quello tra economia ed ecologica è un connubio possibile? O i due campi sono destinati a rimanere eternamente divaricati, lontani uno dall’altro, incomponibili? Senza l’apertura di un orizzonte che le accolga entrambe, qualsiasi modello di sviluppo sostenibile è destinato a naufragare. L'atteggiamento predatorio che distingue la civiltà industriale e la rigenerazione più lenta delle risorse naturali rispetto allo sfruttamento che le impone l’uomo, porteranno a un inevitabile, drammatico, corollario come evidenziato da papa Francesco nella Laudato si’: lo scadimento congiunto dell’«ambiente umano» e dell’«ambiente naturale». Il nodo viene da lontano e coincide con il tracciato stesso dell’Occidente.

Se l’azione così come si delineava nel mondo antico era impotente, destinata a urtare dinanzi a limiti invalicabili – nelle parole di Hans Jonas «la sostanziale immutabilità della natura in quanto ordine cosmico» -, l’azione come la pratichiamo oggi è invece capace di sfondare ogni argine. La natura è vulnerabile, perché disponibile all’intervento dell’uomo. Da ordine immutabile essa scade a materia manipolabile, a cosalità muta, «a insieme organizzato di forze calcolabili » (Heidegger). Il proclama “scienza est potenzia” svela i contorni della modernità: la conoscenza si tramuta in un potere illimitato di trasformazione dell’esistente. Ma non basta: la risoluzione dell’uomo in homo oeconomicus e la “monetizzazione” di ogni aspetto dell’esistenza riducono la natura a mero fondo dal quale estrarre valore (e profitto).

Dentro questo scenario si colloca la sfida lanciata dall’economista Partha Dasgupta ( Il rapporto Dasgupta. La soluzione economica alle sfide del cambiamento climatico, Utet, pag. 240, euro 24): promuovere uno sguardo nuovo, una metodologia inedita che componga economia ed ecologia e che riscatti la natura dalla riduzione a materia da sfruttare nella consapevolezza che essa è «molto più che un mero bene economico». Il nostro tempo è intrappolato in una contraddizione. «Lo standard di vita dell’individuo medio è molto più alto di quanto sia mai stato: a quanto pare, non ce la siamo passati mai così bene. Per arrivare al punto in cui siamo, però, abbiamo talmente deteriorato la biosfera che la nostra domanda dei suoi beni e servizi eccede di gran lunga la sua capacità di soddisfarla a un ritmo sostenibile. Sembrerebbe, dunque, che stiamo vivendo contemporaneamente nella migliore e nella peggiore delle epoche». Si è così conficcato nel grande corpo della natura una sorta di discronia: la velocità con cui cresce la sfera dell’umano non è più accordata alla velocità di rigenerazione della biosfera.

Da dove partire allora? Qual è il primo passo del doppio lavoro di decostruzione e ricostruzione invocato dall’economista di Cambridge? Dasgupta muove da una prima necessità: smontare la visione “Pil-centrica” che colonizza la scienza economica: « La prassi contemporanea di utilizzare il prodotto interno lordo (Pil) – scrive l’economista – per giudicare lo stato dell’economia di un paese si basa su un’applicazione fallace delle teorie economiche». Il Pil è un indicatore “muto”, incapace di comprendere «la svalutazione degli asset, per esempio il degrado dell’ambiente naturale». Il Pil è, insomma, «indispensabile per la gestione macroeconomica di breve termine, ma è del tutto inadeguato per individuare uno sviluppo davvero sostenibile». Esiste poi una sorta di correlazione inversa tra crescita economica e deterioramento della “salute” del pianeta. Alla vertiginosa crescita del Pil si è accompagnato un restringersi della biodiversità. «Si stima che l’attuale tasso di estinzione delle specie sia aumentato di 1001000 volte rispetto al tasso medio delle ultime decine di milioni di anni».

La vocazione del sistema capitalismo - inseguire una crescita illimitata – urta contro un dato di fatto inaggirabile: «la biosfera ha una dimensione finita, il flusso di beni e servizi che fornisce è limitato». Due fattori non vanno trascurati. Primo: «gli ecosistemi si autoregolano, ma solo fino a un certo punto». Un sistema può tollerare cambiamenti e ferite ma solo fino a un grado specifico, superato il quale si inceppa. Secondo: «se un processo viene disturbato oltre una determinata soglia, gli altri ne subiscono le conseguenze ». Un esempio: la deforestazione in Amazzonia produce «un impatto sulle correnti d’aria e sui venti, con effetti sull’agricoltura percepibili fino agli Stati Uniti». Ma non basta. L’ambiente è chiamato non solo a rigenerarsi ma anche a «smaltire i nostri scarti». Il risultato? L’equilibrio naturale è alterato. Dasgupta cita due dati. Primo: «la superficie dei terreni a uso agricolo nella fascia tropicale è aumentato di oltre cento milioni di ettari tra il 1980 e il 2000». Secondo: « Nei nostri oceani, la quantità di pescato è più che quadruplicata dal 1950». È un “fronte” sensibile perché tocca il nodo della sopravvivenza della specie: la produzione di cibo. Di fronte alla gigantesca quantità di cibo sprecato, urge «riprogettare dalle fondamenta i nostri modelli». Quale futuro, allora, ci attende? Come contribuire a custodire l’equilibrio naturale (che ci comprende), la cui alterazione danneggia non solo la biosfera ma la vita stessa di tutti noi?

«La strada che abbiamo davanti», come la definisce Dasgupta, passa attraverso alcuni snodi. Prima di ogni altra cosa, per l’economista c’è l’esigenza di «assicurarsi che la nostra domanda nei confronti della natura non superi la sua offerta». Serve un’etica della misura, capace di distinguere il necessario dal superfluo, che investa tanto i singoli che il decisore politico. Il secondo passaggio è culturale: «Modificare le nostre metriche del successo economico per guidarci su una strada più sostenibile». Sconfiggere, insomma, la narrazione, oggi trionfante, che permea persino il linguaggio e che fa, per esempio, dell’uomo un “capitale umano”. E ancora: «trasformare le nostre istituzioni e i nostri sistemi»: in particolare quello dell’istruzione, indispensabile per creare cittadini consapevoli, e quello finanziario. È questo il punto più lontano da una facile risoluzione e che investe in pieno «il sistema finanziario globale». I soggetti responsabili in gran parte della depredazione dell’ambiente (naturale e umano) possono essere gli stessi ai quali demandare la costruzione di uno sviluppo sostenibile? Non serve un sistema di governance radicalmente diverso da quello attuale?

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: