mercoledì 24 aprile 2024
Il suono naturale ci parla della salute del nostro ecosistema, ma è sempre più difficile sentirlo. Scienziati al lavoro sulle fonti di rumore
Senti chi (non) parla: la biodiversità a prova di Ecoacustica
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Probabilmente non ci facciamo caso, immersi come siamo nel rumore che noi stessi produciamo, ma il suono naturale, quello generato dagli insetti, dagli uccelli, dalle rane, dai mammiferi marini e da tutti gli animali che popolano il pianeta, ci parla chiaramente della salute del nostro ecosistema. L’incessante frastuono che invade il pianeta, causato soprattutto dal lavorio delle macchine (tecnofonia), sta infatti modificando quello che gli studiosi chiamano soundscape o “paesaggio sonoro”, l’ambiente acustico complesso in cui trovano posto i suoni prodotti da elementi come l’acqua e il vento, quelli con cui gli animali comunicano tra loro o eco-localizzano prede e i suoni che noi Sapiens produciamo attraverso la voce e le attività che svolgiamo. Le tecnofonie, quando emesse ad alta intensità, ci impediscono non solo di sentire la voce della Natura ma anche quel «silenzio che è la presenza di tutto», come lo ha definito l’ecologo acustico americano Gordon Hempton. Inoltre, ostacolano la nostra conoscenza del suo stato di salute.

Un’assenza di suoni biologici ci indica, di fatto, che c’è qualcosa che non va nell'ambiente: questa assenza è un sintomo della perdita di biodiversità, del degrado delle funzioni vitali dell'ecosfera e, in ultima analisi, di un deperimento della creatività funzionale insita nel processo evolutivo. Tutto ciò, si badi bene, non è il prodotto di questi ultimi tempi. Negli anni Sessanta la biologia marina statunitense Rachel Carson – autrice di Primavera Silenziosa, libro fondamentale nella storia dell’ambientalismo – aveva osservato come in primavera molti ambienti fossero divenuti più silenziosi di quelli dei decenni passati; non c’erano più i suoni e i canti di origine biologica che li caratterizzavano poiché gli insetti, gli anfibi, gli uccelli erano stati eliminati dai pesticidi. Forse, però, non tutto è perduto. A venirci in soccorso c’è una giovane scienza multidisciplinare, l’Ecoacustica, che combina la Bioacustica con l’Ecologia, la Zoologia e l’Etologia e studia il ruolo ecologico del suono, ne valuta gli effetti e le conseguenze sul biosistema e monitora la diversità biologica al fine di proteggere la Natura.

Alla sua nascita, avvenuta nel 2014 a Parigi durante il congresso “Ecology and Acoustics”, hanno partecipato numerosi studiosi da tutto il mondo: tra loro anche gli italiani Almo Farina, oggi professore onorario di Ecologia all’Università di Urbino, e lo scienziato conservazionista Gianni Pavan, massimo esperto di acustica dei cetacei e fondatore del CIBRA-Centro di Bioacustica dell’Università di Pavia, tragicamente scomparso nel 2023. « Il nome originale era Sound Ecology o “Ecologia dei suoni” ma per evitare confusioni semantiche, considerato che questa denominazione era già in uso nel campo delle scienze sociali, abbiamo optato per Ecoacustica », spiega Farina. « Al di là del nome, il suono è un indicatore fondamentale della salute di un ecosistema: un ambiente sempre più silenzioso dal punto di vista biologico è un ambiente problematico; e problematico è anche quel paesaggio dove i rumori prodotti dall’uomo non permettono più di ascoltare i cinguettii degli uccelli o il ronzio degli insetti. Proviamo a pensarci: quando non siamo in salute, anche la nostra voce cambia, diventa più bassa, più flebile. Lo stesso accade ai suoni che emettono gli animali: la loro variazione ci può indicare se la giornata è calda, coperta o fredda; la lunghezza delle strofe è minore quando fa freddo, è maggiore se fa caldo e si interrompe del tutto quando fa troppo caldo. Se al mattino presto non sentiamo più gli uccelli cantare, significa che qualcosa sta succedendo attorno a noi».

«Se un animale non sta bene in un determinato luogo, perché, poniamo caso, sono stati tagliati tutti gli alberi o sono state aperte attività produttive in mezzo al bosco, se ne va», continua lo studioso. «Ma come facciamo a capirlo? Ascoltandolo, captandone le frequenze. Piazziamo dei microfoni o dei registratori autonomi acustici in luoghi determinati e li lasciamo accesi il tempo che ci serve: il suono, registrato su schede, viene poi processato grazie a software molto potenti. Con lo strumento dell’Ecoacustica possiamo capire tante cose: a quale stadio si trova il recupero di una foresta o di una barriera corallina, per esempio, o se i progressi degli interventi di ripristino di ambienti degradati stiano andando nella giusta direzione». Il mare e gli oceani occupano il 70% della sua superficie e hanno una profondità che può raggiungere gli 11 chilometri. Circa il 90 per cento delle specie che popolano le acque non è stato ancora scoperto o descritto eppure le attività umane non smettono di danneggiarle: anche attraverso il rumore, come ci raccontano le ricerche degli scienziati del Centro Interdisciplinare di Bioacustica e Ricerche Ambientali dell’Università di Pavia.

«Sebbene con grande ritardo, si è capito che il confort acustico di un ambiente non è solo una sensazione per noi piacevole ma è un fattore necessario per la vita degli animali: pensiamo ai mammiferi marini e al loro sonar», afferma Claudio Fossati, responsabile del Cibra. «Studiando l’insieme dei suoni di un ambiente, abbiamo scoperto che tantissimi animali adattano le loro emissioni acustiche all’inquinamento acustico antropico: questo, infatti, spesso si sovrappone alle loro frequenze e ne limita l’efficacia. Anche se per noi può sembrare un problema banale, non lo è. Ogni animale, nella sua evoluzione, ha utilizzato bande di frequenza sonora compatibili con il suono naturale del luogo in cui vive e il cambio di frequenza di emissione richiede da parte loro un investimento energetico importante. Il nostro lavoro consiste nella descrizione del panorama acustico di una zona dove vi sono frequenze naturali, frequenze introdotte dall’uomo e altre dove queste si sovrappongono», prosegue il ricercatore. «Se la soluzione, negli ambienti terrestri, consiste nello spostamento della fonte di rumore o nella creazione di apposite barriere, nell’ambiente sottomarino la gran parte proviene dal traffico navale e si propaga per decine di chilometri. La riduzione del traffico potrebbe essere una soluzione, ma la sua antieconomicità la rende poco praticabile».

Anche i ghiacciai hanno una voce che si fa sempre più struggente a mano a mano che il riscaldamento globale li fa estinguere. Dal 2020 il progetto artistico-scientifico “Un suono in estinzione”, ideato dal sound artist Sergio Maggioni-NeuNau e condotto con alcuni scienziati italiani, sta studiando la voce del ghiacciaio dell’Adamello allo scopo di raccogliere dati con cui monitorare le implicazioni del cambiamento climatico sugli iceberg alpini. Si concentra, infine, sulla registrazione dei suoni degli ecosistemi incontaminati, come le foreste primarie di tutto il mondo, per tramandarli alle generazioni future, il progetto transdisciplinare “Fragments of Extinction” del compositore e docente del Conservatorio Rossini di Pesaro, David Monacchi.

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