mercoledì 17 gennaio 2024
Secondo l’economista ed ex ministro greco Varoufakis, la nostra esistenza digitale è asservita al cloud, che ha un’attitudine ad abolire la produzione di valore
Se la rendita sostituisce il capitalismo: è l'era tecnofeudale
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Non lo sospettiamo ma la contemporaneità nella quale siamo immersi l’ha inventata Mike Buongiorno. Ma cosa c’entra il compianto presentatore tv con la modernità che abitiamo? Non appartiene forse “Lascia e raddoppia” all’archeologia del nostro tempo, a qualcosa cioè di definitivamente archiviato? Ebbene a Mike Buongiorno si deve una “scoperta” che ci ha segnato in profondità: la figura del concorrente televisivo. Una mutazione non solo mediatica ma antropologica. Nella vesta di concorrente di quiz, l’uomo comune abbandonava il divano di casa e la sua postura passiva per entrare dentro la scatola magica della televisione. Era il grande salto, il passo fatale: da spettatore a co-protagonista. Da allora questo strano personaggio non solo non ha più abbandonato la scena, ma l’ha saturata. Oggi presidia ogni programma: cucina, balla, canta, ritrova parenti, piange sui suoi dolori, cerca o ripudia fidanzati, fino all’apoteosi del “Grande fratello”. Ne è nata una tremenda confusione.

Tic, vizi, atteggiamenti, modi di vestire e di parlare: tutto sciama da una parte all’altra dello schermo, tutto fluisce e mischia le “star” televisive e la “gente comune”. Ma non basta. Come i nostri spazi architettonici si organizzavano attorno all’idea di trasparenza (la vetrinizzazione sociale di cui ha parlato il sociologo Vanni Codeluppi), la barriera tra privato e pubblico si è rimpicciolita fino a diventare sottile e, appunto, trasparente. Certo si tratta di un trucco: perché la scrittura autoriale ingabbia, manovra e manipola il personaggio televisivo, telepilota la sua narrazione, confeziona le sue confessioni. Questo sistema ha però un vulnus: la strozzatura dei programmi. È forzatamente limitato. Il passo successivo è arrivato da quella gigantesca piovra digitale che è Internet. Grazie anche alla macchina dei social, l’intero micro- universo dei nostri gusti, dei nostri acquisti, delle nostre idee, del nostro tempo – trascritti in dati – esce continuamente dalle case, dai posti di lavoro, dagli spazi nei quali ci muoviamo per finire su un palcoscenico digitale ed essere immagazzinato. È la cattura della nostra quotidianità il meccanismo che ha consentito al “capitalismo cloud” – come lo chiama l’economista greco Yanis Varoufakis, noto per la stagione non proprio felice nel governo Tsipras – di proliferare.

Non semplicemente un’evoluzione del capitalismo, non solo una sua trasformazione. Ma qualcosa di più. Qualcosa che Varoufakis definisce “tecnofeudalesimo” e che potenzialmente distruggerà – e sta distruggendo – il capitalismo. Seguiamo il ragionamento dell’economista greco. Due sono i suoi “marchi di fabbrica” del capitalismo: i profitti e il mercato. È stata la forza tellurica derivante dalla combinazione di questi due elementi – come riconosceva già Marx che vedeva, nell’affermazione della borghesia, lo scatenamento di energie plasmatrici inarrestabili – a polverizzare le organizzazioni sociali che hanno preceduto il capitalismo. Ebbene, secondo Varoufakis, entrambe queste forze costitutive oggi sono in declino, «sfrattate dall’epicentro del nostro sistema economico e sociale». Cosa ha usurpato il loro posto? Secondo Varoufakis i mercati «sono stati rimpiazzati da piattaforme di trading digitale che assomigliano ai mercati, ma non lo sono, e sono meglio intesi come feudi». A sua volta, il profitto è stato sostituito «dal suo predecessore feudale: la rendita».

Se «la grande trasformazione dal feudalesimo al capitalismo è stata fondata sulla detronizzazione della rendita da parte del profitto come forza motrice del nostro sistema socioeconomico », oggi si assiste al fenomeno esattamente speculare: la riscossa della rendita che sta fagocitando il capitale. Siamo dinanzi alla collisione tra due sistemi solo apparentemente (e morfologicamente) simili. Qual è la forza soverchiante dei “cloudisti” rispetto ai capitalisti classici? Dove si nasconde il cuore mortifero (per il destino del capitalismo) della rendita insediata al centro del tecnofeudalesimo? La forza del capitalismo classico era ancorata a qualcosa di terribilmente tangibile: il la-voro. È (o era) dal lavoro che essa traeva il profitto, che si traduceva in accumulazione, che si traduceva in investimenti, che si traduce in ricchezza più o meno diffusa. Su questa sequenza riposa(va) la forza propulsiva e irradiante del capitalismo. Ebbene, nell’analisi di Varoufakis, questa miscela è stata immunizzata, uccisa dal ritorno prepotente della rendita. La forza del tecnofeudalesimo deriva dalla sua attitudine ad abolire la produzione di valore. Esso non produce, ma estrae valore. Da cosa? Dai micro-comportamenti che costituiscono il nostro stare al mondo – la musica che ascoltiamo, i commenti che postiamo, i video che vediamo o realizziamo, gli acquisti che facciamo, la preferenza che accordiamo. Con il risultato, inquietante, che la nostra esistenza, nella sua versione digitale, è completamente (e volontariamente) asservita al capitalismo cloud.

Il tutto si traduce in una «regressione a forme spudorate di appropriazione. Diversamente dalle forme di imperialismo precedenti, l’impero del cloud non si fonda sul desiderio dichiarato di uno Stato di controllare militarmente e politicamente certi territori. Esso opera in modo più sottile, cercando di rendere la vita intera convertibile in capitale attraverso i dati non con la forza bruta, ma semplicemente con l’espansione degli spazi sfruttabili » (N. Couldry – Ulises A. Mejias, Il prezzo della connessione, Il Mulino). Siamo precipitati dentro quella che Kate Crawford ha chiamato «la mietitura del mondo reale » (Né intelligente Né artificiale, Il lato oscuro dell’Ia, Il Mulino). Il mondo vampirizzato dal cloud.

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