lunedì 14 novembre 2022
Un mese fa il proprietario Yvon Chouinard ha decuto la sua azienda a due onlus: la mia è stata una scelta contro l'ingiustizia sociale
Yvon Chouinard 50 anni fa ha creato il marchio Patagonia

Yvon Chouinard 50 anni fa ha creato il marchio Patagonia

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Il mese scorso Yvon Chouinard, che 50 anni fa ha creato il marchio di abbigliamento e attrezzatura sportiva Patagonia, ha ceduto la sua azienda da 3 miliardi di dollari americani. Del tutto. La proprietà è passata a due nuove entità senza scopo di lucro, la Holdfast Collective e il Patagonia Purpose Trust, con l’impegno legale di utilizzare tutti i profitti futuri — circa 100 milioni di dollari all’anno — per combattere la crisi climatica. Né l’83enne né la sua famiglia hanno guadagnato un centesimo dall’operazione, nemmeno in termini fiscali. Anzi, l’atto di filantropia gli è costato 17,5 milioni in tasse. Da un giorno all’altro, Chouinard ha rinunciato a essere uno degli uomini più ricchi d’America. E questo gli sta bene, molto bene.

Ha detto più volte che essere un miliardario le dava fastidio. Perché? Non ho mai voluto essere un uomo d’affari. Da giovane amavo scalare montagne e costruire cose con le mie mani. Ero un artigiano fai da te e un alpinista. Ogni volta che andavo in montagna avevo idee su come migliorare l’attrezzatura e l’abbigliamento in modo che resistessero a tutti i tipi di condizioni. Ho imparato da solo a fare chiodi, piccozze e ramponi per me e per i miei amici. Eravamo in una controcultura. Gli uomini d’affari erano il nemico. Poi ho cominciato a vendere. E qualche anno dopo mi sono svegliato e ho scoperto che ero un uomo d’affari. Così ho iniziato a leggere libri di economia e ho cercato di creare un’impresa in cui persone come me e i miei amici avrebbero voluto lavorare.

E che tipo di persone eravate?Eravamo sporchi, persone che passavano molto tempo circondati dalla natura. Ho passato anni e anni ad imparare l’arrampicata su ghiaccio e ho fatto un sacco di spedizioni, anche pericolose. Durante un viaggio in Tibet una valanga ha ucciso un mio amico che era in cordata con me e rotto la schiena a un altro. Io ne sono uscito con alcune costole fratturate e una commozione cerebrale. Ha cambiato la mia vita. Mi ha insegnato che non c’è nulla da temere dalla morte. Mi ha dato l’atteggiamento che, quando arriverà il mio momento, me ne andrò pacificamente.

Patagonia ha avuto problemi lungo la strada…All’inizio cresceva del 50% all’anno. C’è stata una recessione e siamo finiti in grossi guai. Ho preso in prestito denaro da amici e amici di amici e ne sono uscito. Ma è stato un campanello d’allarme, ho capito che stavo facendo affari come tutti gli altri. Mi sono chiesto perché avevo questa impresa e ho cambiato completamente il modo di fare affari. Ho scritto un libro: «Let my people go surfing» («Lascio i miei impiegati andare a fare surf», ndr.). Abbiamo una politica aziendale che dice: se tuo figlio si ammala, vai a casa. E se le onde montano, vai a fare surf. Non mi interessa. Nella società dei nativi americani, il capo non è il più ricco o il più forte, ma il miglior oratore, perché deve prendere decisioni in base al consenso, quindi deve saper spiegare che cosa bisogna fare e perché. E il leader prende più rischi. A Patagonia ho sempre assunto persone molto indipendenti e motivate che credono in quello che facciamo e poi le ho lasciate in pace.

Ma non le è bastato…Dopo tutti questi cambiamenti, mi sono reso conto dell’effetto che la mia azienda aveva sulla società. Eravamo relativamente piccoli ma avevamo un’incredibile potere sociale in tutto il mondo, quindi anche la responsabilità di usarlo in modo costruttivo. La nostra dichiarazione di intenti aziendale afferma che dobbiamo provocare il minor danno possibile (involontariamente o per ignoranza). Ho capito che dovevo andare oltre, che volevo fare del bene. Patagonia è la mia risorsa per fare qualcosa di buono nel mondo. Ecco perché ho deciso di non vendere l’azienda ma di fare in modo che in futuro avrà un impatto positivo, anche senza di me o la mia famiglia. Non voglio essere parte del problema dell’ingiustizia sociale e del cambiamento climatico e questo è l’unico modo per essere parte della soluzione.

Quindi pensa che le aziende possono essere una forza positiva per arrivare a uno sviluppo sostenibile? Devono essere costrette dal consumatore, altrimenti non cambieranno da sole, o solo una piccola minoranza. Non possono essere responsabili sul fronte sociale e ambientale e allo stesso tempo essere tenute per legge a massimizzare i profitti per gli azionisti. Ma il consumatore può dire di no e non comprare i loro prodotti. Anche il governo ha un enorme potere nel costringere le aziende a cambiare e a contribuire. Credo nelle tasse. Sono felice di pagare le tasse.

Vede la tecnologia come un amico o un nemico dell’ambiente?Molti dei problemi che stiamo avendo come società possono essere risolti attraverso la qualità. La tecnologia non darà lavoro alle persone, distruggerà posti di lavoro e non produrrà necessariamente prodotti migliori. Ma può anche essere usata per aumentare la qualità, se lo vogliamo. Ogni volta che mi sono trovato bloccato con un problema in azienda, la soluzione è sempre stata aumentare la qualità. Bisogna consumare meno ma meglio, fare prodotti che durano a lungo e che si possono riparare invece di buttarli via. Costa di più ma fa bene a tutti: ai lavoratori, che sono pagati di più, ai consumatori, che nel lungo termine risparmiano, e all’ambiente.

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