martedì 4 aprile 2023
Viaggio nei campi profughi: agli sfollati vengono assegnati cibo, terra e materiale per costruirsi un'abitazione. E la convivenza con la comunità locale si sta rivelando proficua per tutti
Un bambino all'interno del campo profughi ugandese di Agoyo

Un bambino all'interno del campo profughi ugandese di Agoyo - Cravedi

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Quando i miliziani arrivano nel villaggio sud sudanese di Kalolo, Halima Ayew ha 28 anni e tre figli. Insieme al marito, vede i commando sparare contro qualsiasi cosa si muova, contro ogni capanna. E capisce che deve fare in fretta, senza stare troppo a chiedersi se quegli uomini armati siano dei dinka, milizie legate al presidente Salva Kiir, o nuer, uomini dell'etnia del suo vice, Riek Machar. È l'estate del 2016 e i due si fanno la guerra già da quasi tre anni, dopo aver deluso le aspettative di un popolo che, scelta l'in dipendenza dal Sudan nel 2011, sperava di fare del Sud Sudan, finalmente, un Paese pacifico. E invece. E invece la guerra fa in pochi anni 400mila morti e due milioni di sfollati. Persone come Halima. Che vede uccidere uomini, donne e bambini e fugge da Kalolo con la famiglia verso Sud, direzione Uganda, dove il governo locale sta sperimentando un modello di accoglienza unico al mondo. Perché qui i profughi hanno diritti chiari fin dal primo giorno e la convivenza con la comunità locale si sta rivelando proficua per entrambi.

Non c'è progetto delle Ong sul posto che non preveda, infatti, accanto al sostegno ai profughi, un analogo supporto alle comunità locali, che si tratti di formazione o di accesso all'acqua o a fonti di reddito. Da subito i profughi, una volta registrati alla frontiera, hanno diritto a razioni di cibo o a una somma di denaro e a scegliere se restare in uno dei tanti campi per rifugiati, che non hanno né mura né recinzioni ad ostacolare la libertà di movimento. Qui i profughi riceveranno anche un pezzo di terra di 30 metri quadrati e materiale per costruirsi un'abitazione, capanne o piccole costruzioni in mattoni.

Halima Ayew ha 28 anni e tre figli: è fuggita dalla guerra in Sud Sudan

Halima Ayew ha 28 anni e tre figli: è fuggita dalla guerra in Sud Sudan - Alfieri

Il distretto di Adjumani, dove ci rechiamo insieme agli operatori dell'Ong piacentina Africa Mission cooperazione e sviluppo, fondata da don Vittorio Pastori e attiva da anni sia nella formazione che nell'accesso all'acqua, è quello che finora ha accolto più profughi dal Sud Sudan: ben 280mila, su una popolazione locale di 230mila abitanti. Ci sono, insomma, più profughi che residenti, ma nessuno considera questo un problema, a maggior ragione davanti a politiche che vanno nella direzione di una piena integrazione delle persone accolte. Nel periodo massimo dell'emergenza, nel 2013, qui arrivavano 10mila sfollati al mese. A gennaio ne sono arrivati circa 600. In totale, sono 1,3 milioni i profughi ospitati in Uganda, il Paese africano che ne accoglie di più e tra i primi cinque a livello mondiale. «I campi istituiti solo qui ad Adjumani sono 19: è il distretto che ha concesso più terra agli sfollati, che ora però vengono diretti verso la zona di Arua», spiega Francis Kirya, funzionario dell’ufficio del primo ministro.

Kirya ci conduce fino al punto di passaggio del confine attraversato dagli sfollati e ci mostra la procedura di prima registrazione. I feriti vengono subito curati, vengono somministrate le vaccinazioni anti-polio e contro il Covid-19. Tutti i dati personali vengono poi segnati su una sorta di carta d'identità e le razioni di cibo assegnate in base al numero dei componenti delle famiglie, spesso molto numerose. «A fronte di un tale sistema di accoglienza, sostenuto dalle agenzie umanitarie internazionali, a nessun profugo conviene minimamente attraversare il confine in maniera irregolare», fa notare Piergiorgio Lappo, responsabile per l’Uganda di Africa Mission, «è un modello che dà un esempio e che finora ha mostrato di funzionare». È il passaggio dall’accoglienza vista in modo assistenziale ad una logica di sviluppo, che per l’Uganda si è tradotta in una scelta vincente.

Da Adjumani, dopo quasi un'ora di strada, raggiungiamo il campo di Agojo, che ospita 6mila sfollati. Rispetto all'immagine standard dei campi profughi, dove spesso gli sfollati hanno a disposizione solo fragili tende lacerate dal vento, qui vige un certo ordine e un'atmosfera più che dignitosa. John Kennedy Anyama, capo progetto di Africa Mission, ci spiega che l'Ong ha perforato tre pozzi nella zona, uno dei quali in una scuola secondaria, perché nei campi c'è comunque un problema di accesso all'acqua. Inoltre vengono tenuti molti incontri di formazione in cui si mettono anche al centro la pace e la riconciliazione tra le comunità. Con un altro progetto Africa Mission ha inoltre dato vita a un centro giovanile mentre a breve verranno rinnovati altri centri di aggregazione. «Stiamo colmando le distanze tra i profughi e le comunità locali», sottolinea Anyama.

È qui ad Agojo che Halima ci racconta la storia sua e della sua famiglia, che da quel 22 luglio 2016, giorno di arrivo in Uganda, si è allargata: i figli ora sono cinque e l’ultima arrivata ha quattro mesi appena. «Qui con loro viviamo solo io e mia madre, che però è molto malata. Mio marito ora sta a Juba, dove vende vestiti in un negozio, io cerco di andare una volta all’anno a trovarlo», sorride Halima, spiegando che i profughi possono naturalmente muoversi verso il Sud Sudan quando lo desiderano e, al loro rientro, essere riaccolti. Sui suoi 30 metri quadrati di terra, Halima ha costruito una piccola abitazione rettangolare in mattoni, di fianco c’è una capanna per la madre e un’altra capannina, la sua cucina, all’interno della quale ha riposto le sue casseruole e qualche provvista. In un angolo ha anche iniziato ad allevare del pollame. Nel campo, i suoi bimbi possono andare a scuola e a disposizione c’è un primo posto di soccorso sanitario.

Sotto il sole cocente di mezzogiorno, vediamo i ragazzi sfilare con le loro divise scolastiche, impolverate dalla terra rossa sollevata dal vento. La vita nel campo, però, nonostante gli aiuti, resta una sfida per la sopravvivenza. «Fino a qualche tempo fa – spiega Halima – ad ogni sfollato, bambini compresi, venivano assegnati 12 chilogrammi di mais al mese, ma le razioni da qualche tempo sono state ridotte a soli 3 chilogrammi, oltre a 1 chilo di fagioli e a meno di un litro di olio per cucinare. È veramente poco e terminiamo le razioni ben prima di fine mese. Io riesco ad andare avanti grazie a quello che può mandarmi mio marito da Juba, ma in molti stanno considerando di tornare in Sud Sudan. Lì, però, la situazione è ancora tesa». «La diminuzione delle razioni – fa notare Debora Piccinno, capoprogetto di Africa Mission – è conseguenza anche della guerra in Ucraina. Le agenzie dell’Onu hanno dovuto tagliare gli aiuti alimentari nei confronti di molti Paesi africani, per l’aumento considerevole dei prezzi dei cereali». È l’onda lunga della guerra. Quella da cui, anche chi ha scappato, rischia di essere di nuovo raggiunto e travolto. Anche se la guerra non è più la “propria”, o non è mai stata la propria. Proprio il Sud Sudan, il Paese di Halima e di altre migliaia di profughi come lei, è stato tappa del recente viaggio africano di papa Francesco. «Basta guerre in Africa», l’appello del Pontefice, che per la pace in Sud Sudan si è speso personalmente con i leader del Paese.

Lasciamo Halima, la sua famiglia, i suoi vicini, profughi come lei, ognuno con la sua capanna, la sua piccola casa, le sue grandi speranze. Saliamo su una piccola altura su cui è stata posizionata un’enorme cisterna d’acqua. Da qui la vista domina un orizzonte sterminato: in fondo, visibile a qualche decina di chilometri di distanza, scorrono in mezzo alla savana ugandese le acque del Nilo, il grande fiume che è nutrimento e vita e speranza per decine di milioni di africani.

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