martedì 12 dicembre 2023
Un continente nero impoverito e destabilizzato rappresenta un rischio. Approccio paritario e dimensione operativa dovrebbero costituire fattori di partnership a cui l’intera Europa dovrebbe puntare
Da Mattei a Delors: per l’Africa il piano giusto
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Il cosiddetto “Piano Mattei” di cui si parla da qualche tempo ha un merito: quello di accendere i riflettori sull’Africa. Aiutare l’Africa ad aprire un ciclo di sviluppo costante non dovrebbe infatti essere lo scopo solo delle organizzazioni umanitarie. Ciò che è in gioco, infatti, non è tanto il tema della solidarietà (pure importante per una civiltà come la nostra) quanto quello dell’interesse nazionale.

Un’Africa impoverita e destabilizzata rappresenta un rischio non solo per l’impossibilità di gestire in maniera ordinata gli inevitabili flussi migratori ma anche in termini di vera e propria sicurezza. Un’Africa stabile e con ritmi di crescita adeguati diventa invece un partner indispensabile per uno sviluppo ordinato e sostenibile del nostro futuro comune. Non solo per i rischi connessi alle guerre, ai traffici illegali di armi, di droga e di persone, ma per la necessità di affrontare insieme le grandi questioni del nostro tempo, a partire da una transizione energetica e ambientale realmente realizzabile perché globalmente sostenibile.

Le dimensioni di questa sfida (finanziarie ma non solo) sono tali da escludere l’intervento di un solo Paese. Per questo più che di “Piano Mattei” bisognerebbe parlare di “Piano Delors”. Di un’iniziativa, cioè, che veda in campo l’intera Unione Europea. Visto che le questioni citate riguardano, con diversa incidenza, tutti i Paesi europei.

Il governo italiano dovrebbe quindi stimolare l’Unione ad assumere il dossier africano come una priorità per la quale mobilizzare una quantità di risorse tali da determinare davvero una svolta nel continente africano. L’Africa di oggi non è più quella di qualche decennio fa. Una quota consistente dei suoi abitanti (da tre a quattrocento milioni) costituisce ormai una vera e propria “classe media”. Inoltre, le nuove generazioni sono nate digitali e, per questo, accanto alle storiche arretratezze alcuni Paesi africani sono oggi esempi di grande innovazione tecnologica. L’Africa, quindi, non è più solo il continente dalle grandi risorse minerarie, con enormi riserve d’acqua non sfruttate e due terzi delle terre arabili del pianeta ancora non utilizzate. L’Africa, oggi, è un continente che, consapevole dei propri ritardi, cerca di utilizzare la rivoluzione High Tech per saltare tecnologie meno efficienti, costose o inquinanti, passando direttamente alle più avanzate.

Ciò è successo nella telefonia dove, saltando l’utilizzo delle obsolete linee di terra, la rapida diffusione della telefonia mobile ha creato nuove opportunità in diversi settori. In agricoltura, permettendo ai coltivatori nelle aree remote di conoscere i prezzi nei mercati cittadini stimolando così la produzione. Nelle transizioni finanziarie e nei servizi connessi, senza dover attendere i tempi infiniti per la creazione di una rete fisica di sportelli bancari. Più in generale il crescente utilizzo delle nuove tecnologie ha stimolato nelle aree più dinamiche la nascita di numerose start-up nei settori più diversi. A tutto ciò ha corrisposto la crescita di micro o macro-mercati sub-regionali che però non sono in contatto fra loro. Ed è questa realtà frammentata (insieme all’instabilità e alle guerre, presenti a macchia di leopardo in tutto il continente) a costituire l’impedimento principale ad uno sviluppo economico effettivo e consistente. Ancora oggi la quota di scambio dell’Africa nel commercio mondiale è assolutamente trascurabile e basata esclusivamente, da parte africana, sull’esportazione di risorse minerarie. Più grave ancora il fatto che la quota di import/export interna al continente è attorno al 15% mentre in Europa raggiunge il 67% e in Asia il 61%.

Per questo assume importanza storica la decisione dell’Unione Africana (il primo gennaio del 2021) di creare un’area di libero scambio continentale (AfCFTA-African Continental Free Trade Area). Non solo perché rappresenta la traduzione dell’antico sogno panafricano, ma in quanto costituisce la premessa perché l’Africa possa realmente vincere la lotta contro il sottosviluppo. Un punto di partenza, quindi, e non certamente d’arrivo. Come dimostra, del resto, la nostra stessa esperienza nel processo di costruzione del mercato comune europeo.

Ovviamente, perché questo processo possa avere una effettiva implementazione sono necessarie due condizioni.

Una riguarda esclusivamente gli africani, che hanno il potere e anche la possibilità di crearla. Si tratta della necessità di tradurre l’accordo in un complesso di norme giuridiche e regolamenti per abbattere le barriere tariffarie, uniformare i vincoli tecnici, sanitari e fitosanitari, facilitare il movimento delle persone, abbattere i costi delle transazioni derivanti dai diversi sistemi di pagamento. La seconda condizione, invece, non può essere affrontata dagli africani da soli. Si tratta del gravissimo deficit infrastrutturale che, perdurando, renderebbe puramente teorico il processo verso un effettivo mercato comune continentale.

Per quanto riguarda l’energia, ad esempio, la maggioranza degli africani non ha ancora accesso all’elettricità e il 40% delle attività nell’economia formale sono condizionate negativamente da questa carenza. Il sistema delle reti stradali (sul quale passa l’80% del commercio interno) è estremamente carente e le strade, quando esistono, raramente sono asfaltare. Il sistema ferroviario è ai primordi, le reti telematiche presenti a macchia di leopardo e nella gestione dei porti (infrastruttura essenziale per lo sviluppo del continente) le inefficienze e l’obsolescenza tecnica comporta in molti casi un aggravio dei costi che arriva fino al 40%. Superare questo deficit comporta investimenti che non sono alla portata dei soli governi africani. Secondo la Banca Africana di sviluppo (al momento dell’approvazione dell’AfCFTA) il fabbisogno annuo di investimenti per infrastrutture era stimato fra 130 e 170 miliardi di dollari, con un gap finanziario (rispetto alle capacità africane) tra i 68 e i 108 miliardi. Chi può disporre dei mezzi necessari per colmare questo divario? E chi può avere la volontà politica di farlo da partner reale e alla pari? L’Europa, credo, avrebbe l’interesse di assumere questa sfida e diventare, in questo, l’interfaccia permanente dell’Unione Africana. Significativo, in questo senso, che, secondo l’indagine commissionata da Amref Italia ad Ipsos (Africa e salute, l’opinione degli italiani), negli ultimi due anni sia cresciuta la convinzione che bisogna fare di più per l’Africa (raggiungendo il 42%). Ma mentre il “Piano Mattei” è una mera suggestione (solo il 12% ha un’idea di cosa sia) la stragrande maggioranza (87%) ritiene che siano necessarie nuove strategie condivise da Europa e Africa.

In questo quadro di Enrico Mattei l’aspetto che va recuperato è l’approccio paritario, che teneva in conto gli interessi dei partner africani. Un “Piano Mattei” per l’ispirazione, quindi. Ma un “Piano Delors” come dimensione operativa.

* Comitato dei garanti di Amref Italia

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