mercoledì 24 aprile 2024
Senza personale formato e ambienti lavorativi inclusivi, sono ancora troppo pochi i disabili ai quali vengono date vere opportunità
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C’è un muro sempre più alto tra lavoro e disabilità. Da una parte, uomini e donne che attraverso una professione potrebbero fare passi da gigante verso la realizzazione della propria vita indipendente, un diritto sancito dalla convenzione Onu. E dall’altra aumentano le aziende, soprattutto grandi, che cercano persone con disabilità, fisica o cognitiva, non solo nel rispetto della legge 68 del ‘99 che disciplina le Norme per il diritto al lavoro dei disabili, ma anche per un’attenzione al tema dell’inclusione sempre più diffusa. A spiegarlo è Marino Bottà, membro dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, direttore generale di Andel – Agenzia Nazionale Disabilità e Lavoro e autore del libro L'inclusione lavorativa delle persone con disabilità, appena pubblicato da Erickson.

«Poche ore fa ho ascoltato due imprenditori che mi hanno chiesto come individuare personale disabile, perché proprio non si trova la via – racconta a L’Economia civile –. Il problema non è nella legge 68, di per sé ottima, ma nella sua applicazione frastagliata di regione in regione, “ad Arlecchino” come sono solito dire. E così depotenziata». Tutto sta nella capacità di costruire percorsi plasmati sulle caratteristiche funzionali della persona e sulla conoscenza del mondo del lavoro, delle sue rivoluzioni tecnologiche e delle aziende del territorio. Ma a mancare è l’aggiornamento costante del personale negli uffici preposti. Bisogna poi curare l’ambiente lavorativo per renderlo inclusivo, compito in teoria riservato al Disability Manager, figura dalle multiformi mansioni indicata nei regolamenti d’indirizzo e non ancora normata, che in Italia è presente solo in qualche mega azienda e ancor meno nel pubblico. Ora viene anche proposto il Disability Job Supporter, professionista a 360 gradi, più centrato nei percorsi individualizzati di accompagno dalla scuola alla professione, oltre che di accomodamento ergonomico al lavoro. « Pochissimi sono i collocamenti, abbiamo persone immobili nelle liste regionali da decenni, sfiduciate», commenta Bottà.

L’Istat in “Disabilità in cifre, anno 2021” spiega che solo il 12% di chi ha una limitazione grave e il 28,9% di chi ne ha una non grave risulta occupato, mentre la media nell’Unione Europea è al 50%, secondo i dati raccolti da Andel. «E questi numeri sono persino sottostimati perché aggregano dati poco attendibili, contraddittori, da elenchi regionali o provinciali non aggiornati, che non riescono a dialogare tra loro», precisa Bottà. Nonostante l’impatto sociale della disabilità, che tra diretti interessati, familiari e operatori coinvolge più di 10milioni di persone, in Italia la banca dati del collocamento mirato, stabilita dal Decreto 151/15, in nove anni non è mai riuscita a partire. Impossibile sapere con precisione chi è in età lavorativa, gli occupati, i disoccupati, le modalità. Si parla di 950mila iscritti al collocamento disabili, ma il numero dovrebbe avere abbondantemente superato il milione, di cui il 50% ha smesso di cercare lavoro.

Una situazione che si aggrava, spiega Bottà nel suo nuovo libro, di governo in governo e in assenza di un piano sociale strategico, con l’attenzione tutta concentrata sull’integrazione scolastica e l’assistenza economica. Ci sono persone con disabilità assunte da enti pubblici tramite progetti sociali curati dal Terzo settore, altre con qualifiche più specifiche che trovano lavoro con le agenzie interinali private. Ma parliamo di piccoli numeri. Tante aziende si vedono costrette ad abdicare agli obblighi della 68, dinanzi alle difficoltà di ricerca e progettualità adeguate. L’interesse però è vivo, lo dimostrano le notizie e i bollettini con continue offerte di progettazione lavorativa, per persone down per esempio o per chi ha disturbi dello spettro autistico. Il marchio ottico Oxo ha appena dato la disponibilità per 500 posti destinati a personale con disabilità intellettiva. Ma mancano le buone prassi burocratiche e ammi-nistrative, capaci di attivare strumenti adeguati, come borse lavoro o tirocini regolarizzati, di accompagnamento verso l’assunzione. Prassi che si registrano in Valle d’Aosta, a Lecco, a Bergamo, c’erano a Reggio Emilia, ma latitano nel resto d’Italia. E che permetterebbero a una persona disabile di lavorare come commesso per esempio, integrando la pensione d’invalidità verso il raggiungimento della vita autonoma.

È una questione di diritti irrinunciabili ma anche di emergenza sociale, tenuto conto che l’indagine Eurostat 2022 evidenzia come in Italia il 32,5% delle persone con disabilità è a rischio povertà più delle persone senza disabilità, al 22,9%. Lo sottolinea anche Marco Rasconi, consigliere dell’Agenzia per la vita indipendente di Milano e presidente della Uildm nazionale - Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare. «Chi trova un lavoro libera tempo alla propria famiglia e risorse per altri progetti d’inserimento. In più, dà un contributo strutturale col proprio Isee agli stessi servizi. Il tema è cruciale». Ma in Italia prevale ancora la cultura dell’assistenzialismo, dove la persona con disabilità è vista come un soggetto da accudire piuttosto che da mettere nelle condizioni di protagonismo del proprio progetto di vita.

Tale prospettiva rischia di essere introiettata dagli stessi uomini e donne che la subiscono. «Non si tratta di rivendicare un diritto che ci è dovuto, ma di offrirci al mercato consapevoli delle nostre possibilità», spiega Rasconi. Senza contare che aumenta il numero delle persone disabili qualificate e laureate, che molte dimostrano una determinazione e una tempra notevoli e poi che il panorama è cambiato. Ora c’è lo smartworking, la tecnologia e la domotica possono abbatte diverse barriere e inoltre alcune forme di disabilità cognitiva, che mostrano una capacità di pensiero trasversale, sono sempre più interessanti per dei comparti produttivi, come del design o digitali.

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