mercoledì 21 dicembre 2022
In Italia per ora solo il 5 per cento delle strutture di ricovero si è dotata di spazi verdi in grado di regalare autentici momenti di benessere sia ai pazienti sia ai loro familiari
"Il Giardino della Felicità", progettato dall'architetto Monica Botta, realizzato in una casa di cura di  Ferrara

"Il Giardino della Felicità", progettato dall'architetto Monica Botta, realizzato in una casa di cura di Ferrara

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Si chiamano healing gardens, giardini terapeutici, e se in Italia sono una novità, nel Nord Europa e negli Stati Uniti sono invece una realtà ben consolidata. Il termine potrebbe trarre in inganno perché, come spesso accade, le parole e le pratiche d’oltreoceano vengono “italianizzate” e il risultato è una gran confusione. «Se parliamo di healing gardens – dice subito Giulio Senes, professore di Progettazione del territorio e del paesaggio all’università Statale di Milano e uno dei maggior esperti nel settore – ci riferiamo a giardini o spazi verdi che non hanno una funzione strettamente terapeutica, questi invece si chiamano therapeutic gardens ». Perché quindi sono così importanti? «Ci sono moltissimi studi scientifici che dimostrano come uno spazio verde curato e funzionale produca un benessere reale e misurabile, soprattutto se costruito in luoghi di tristezza e dolore, come ospedali e case di cura».

Il gruppo di ricerca di Senes nel 2018, in collaborazione con la rivista Acer, ha condotto un primo censimento degli healing garden in Italia. Sono stati considerati gli ospedali e le strutture di ricovero e cura: su circa 850 soltanto 46, ovvero il 5 per cento, avevano un giardino healing e di queste 32 si trovavano nelle regioni del Nord. « La questione non sono tanto i fondi per costruire uno spazio funzionale quanto la menta-lità, la capacità di progettare. Bisogna passare da un approccio che cura la malattia a uno che mette la persona al centro e questo vale anche per il personale sanitario, non solo per i pazienti».

Esistono già buoni esempi: il metodo per progettare questi spazi a misura d’uomo viene dagli Stati Uniti e si chiama evidence-based design. È un approccio sviluppato dal Center for Health Design e il suo utilizzo è obbligatorio per tutti i luoghi di cura e «ogni scelta progettuale deriva dall’evidenza scientifica, inclusa la scelta dei materiali, dei colori, dell’illuminazione». Si agisce per portare benefici sia per i pazienti e i loro parenti, sia per il personale dell’ospedale e «lo stesso facciamo noi quando progettiamo questi healing gardens: operiamo in base all’evidenza scientifica», sottolinea ancora Senes. Un esempio in Italia? L’ospedale Ferrero di Verduno, vicino ad Alba. Qui è stato progettato per primo il giardino del reparto psichiatrico, uno spazio recintato e sorvegliato, ma con tanta luce e tanto verde che ha sul paziente un effetto calmante. Il giardino della radioterapia interno all’ospedale dove ci sono tavolini e sedie, grandi vasconi con piante rampicanti, poco cemento e tanto legno. Non si presenta come il classico giardino con alberi e prato ed è «proprio questo che dovremmo capire – secondo Senes – perché gli healing gardens non sono uno spazio esterno a una struttura, ma devono essere diffusi e sfruttare tutti i cavedi per portare dei reali benefici alle persone. Il paradosso è che abbiamo costruito gli ospedali per curarci e poi è l’ambiente stesso che non si prende cura di noi».

Per fare in modo che questo accada la struttura di Verduno ha realizzato un giardino speciale che vuole essere una carezza a chi ha perso un proprio caro, «per avere il tempo di dirgli addio, cosa che con il Covid non abbiamo potuto fare». Si chiama appunto “giardino degli addii” e sta accanto alle camere mortuarie: una stradina in ciottoli che porta a un piccolo stagno, intorno alberi, siepi e panchine. Un luogo silenzioso per un ultimo saluto. Più vicino all’idea di therapeutic garden c’è “Il Giardino della Felicità”, progettato da Monica Botta, architetto paesaggista. È uno spazio di oltre 2.500 metri quadrati realizzato in una casa di cura a Ferrara. «Sono stati gli stessi ospiti a scegliere il nome del giardino e devo dire che lo hanno fatto con grande entusiasmo», entusiasmo che Botta ha sentito anche quanto è tornata alla struttura dopo un po’ di tempo: « I parenti in visita si fermano di più, il giardino è lo spunto per fare conversazione o per allungare la passeggiata all’aperto. Gli ospiti stessi scendono in giardino per camminare in autonomia prima ancora di fare colazione e l’orto da coltivare è stato un successo». Ci sono spazi pensati per fare movimento, aree di aggregazione ombreggiate e con molte panchine, altre di sosta e per attività orticole e degli spazi dedicati al personale della struttura che ospitano incontri fino a quaranta persone. «Sembrano piccole cose, ma fare riunioni all’aperto, immersi nel verde, riduce sensibilmente il rischio di scontro e porta a essere più concilianti – dice Botta – merito della serotonina che viene rilasciata dal nostro organismo».

C’è l’aiuola del gusto con piccoli frutti che possono essere raccolti e mangiati «soprattutto quando è periodo di fragole», quella del tatto, dell’olfatto con le erbe aromatiche e poi una palestra usata per gli esercizi di fisioterapia, «dove spesso gli anziani vanno da soli e questo vuol dire che si fidano di usarla anche senza assistenza». Ha riscosso un grande successo l’orto: i tavoli rialzati sono coltivati a verdura, mentre in quelli più bassi ci sono i fiori. «Una volta abbiamo tolto scarpe e calzini agli ospiti in carrozzina e gli abbiamo fatto sentire l’erba sotto i piedi – racconta Botta – qualcuno di loro non si ricordava la sensazione e si è commosso ». Il giardino è stato pensato anche come luogo aperto alla città che può essere utilizzato per eventi e incontri, così si può portare un pezzetto di Ferrara dentro la casa di cura. «Vorrei che si capisse l’importanza di questi spazi e il lavoro che c’è dietro» perché «non è “piantare due margherite” come spesso mi sento dire». Per l’architetto servono «studio, conoscenza dei materiali e capacità di ascoltare le esigenze di pazienti e infermieri: bisogna sapere se quel materiale è drenante o no, se la rampa può essere costruita in quel punto, se agli operatori serve che le panchine siano messe in un modo piuttosto che in un altro. Non è un lavoro che si improvvisa».

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