mercoledì 5 aprile 2023
La Convenzione di Firenze riconosce al territorio, fatto di natura e azione umana, i tratti del bene comune. La sua salvaguardia non è solo questione di governance politica
Nel paesaggio va in scena il valore di una comunità

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«Il paesaggio è il grande malato d’Italia. Basta affacciarsi alla finestra: vedremo villette a schiera dove ieri c’erano dune, spiagge e pinete, vedremo mansarde malamente appollaiate su tetti un giorno armoniosi, su terrazzi già ariosi e fioriti. Vedremo boschi, prati e campagne arretrare ogni giorno davanti all’invasione di mesti condominî, vedremo coste luminose e verdissime colline divorate da case incongrue e “palazzi” senz’anima, vedremo gru levarsi minacciose per ogni dove. Vedremo quello che fu il Bel Paese sommerso da inesorabili colate di cemento». Inizia con questa tragica diagnosi il bel libro di Salvatore Settis intitolato Paesaggio, Costituzione, Cemento (Einaudi, 2010). E continua lamentando come «monti, campagne, marine sono sempre meno il tesoro e il respiro di tutti i cittadini, sono anzi ormai la troppo facile riserva di caccia di chi cinicamente li devasta calpestando il bene comune per il proprio cieco profitto». Un bene comune calpestato dalla cinica rincorsa dell’interesse personale.

Siamo davanti ancora una volta alla “tragedia dei beni comuni”, che in queste pagine tante volte abbiamo visto all’opera nell’erodere i preziosi commons locali o globali da cui sempre più pesantemente dipende la qualità della nostra vita. Anche il paesaggio, dunque, è un bene comune. Lo riconosce ufficialmente la Convenzione di Firenze approvata nel 2000 ed oggi sottoscritta da tutti i quaranta Stati membri del Consiglio d’Europa, che all’articolo 1 con il termine “paesaggio” indica «una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni». Nel preambolo leggiamo anche che il paesaggio «rappresenta un elemento chiave del benessere individuale e sociale, e che la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua pianificazione comportano diritti e responsabilità per ciascun individuo».

Un bene comune del tutto speciale, dunque, che scaturisce dall’interazione di elementi fisici, culturali e soggettivi. Quelle colline ricoperte di vigneti non sono dunque solo delle colline, ma rappresentano la storia e le tradizioni del luogo che vede le famiglie riunirsi per la vendemmia e il vino che ne simboleggia la fecondità e generare ricordi che vivranno nei cuori degli abitanti di quei luoghi e che verranno tramandati in opere letterarie o coi racconti alle generazioni future. Così come il paesaggio urbano che parla diversamente ai cittadini, ai turisti a chi è estraneo alla storia del luogo e a chi invece quella storia la respira da secoli. Il paesaggio è dunque logo e percezione dei luoghi, ambiente e cultura, storia e bellezza, saperi e tradizioni. E come riconosce ancora la Convenzione di Firenze, esso «svolge importanti funzioni di interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituisce una risorsa favorevole all’attività economica, e che, se salvaguardato, gestito e pianificato in modo adeguato, può contribuire alla creazione di posti di lavoro (…) è in ogni luogo un elemento importante della qualità della vita delle popolazioni (…) rappresenta un elemento chiave del benessere individuale e sociale, e la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua pianificazione comportano diritti e responsabilità per ciascun individuo».

Ecco perché la diagnosi tragica di Settis non può lasciarci indifferenti: sia per il valore assoluto del paesaggio stesso, sia perché la sua salvaguardia non è solo una questione di governance politica ma comporta, invece, diritti e responsabilità per ciascuno di noi.

Detto in altri termini il paesaggio è un vero e proprio “teatro della democrazia”, per usare una bella espressione sempre di Settis (Architettura e democrazia. Einaudi, 2017), che integra una componente estetica (il paesaggio da vedere) con una etica ed etologica (il paesaggio in cui vivere). Ed è un teatro comunitario che non appartiene ai singoli proprietari dei terreni, dei palazzi o dei poderi, ma a tutti coloro che con la loro storia e con la loro esperienza quotidiana ne percepiscono il valore e i significati profondi. Da questa visione discendono implicazioni etiche importanti per chi contribuisce alla creazione del paesaggio, gli architetti, per esempio, e per chi lo governa, i decisori pubblici. I primi hanno una responsabilità che trascende quella del rapporto coi i loro committenti privati perché la loro azione ha effetti, attraverso la trasformazione del paesaggio, sulla qualità della vita di tutti gli altri membri di quella data comunità e i secondi, i politici, perché la loro responsabilità non si esaurisce nel rapporto con i cittadini che al momento abitano quei luoghi, ma deve fare riferimento anche a coloro che li abiteranno in futuro.

Ecco perché parlando di paesaggio e di tutela del paesaggio non si può non rivolgersi ai giovani che saranno da una parte i fruitori di quei luoghi, ma che soprattutto, vedranno la loro esperienza di vita, in qualche modo plasmata da quegli stessi luoghi nella loro interazione con la storia, i simboli e le tradizioni che essi incarnano. Non è un caso che i nostri padri costituenti inserirono la tutela dell’ambiente nell’articolo 9 assieme alla promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica. Non si può infatti tutelare il paesaggio-bene comune senza la comprensione culturale del suo valore e senza l’utilizzo delle conoscenze umanistiche e tecniche più raffinate «anche nell’interesse – continua l’articolo 9 - delle future generazioni».

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