lunedì 6 marzo 2023
Il confronto tra diverse ragioni è un bene comune, messo sempre più a rischio dalla ricerca del consenso
Dibattito pubblico, se anche le news sono un panda da tutelare

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In un incontro informale con i giornalisti che avevano seguito le consultazioni che precedettero la formazione del governo Conte, il presidente Mattarella indirizza loro queste parole: «Sono entrato in questa sala stampa soltanto per salutarvi e per ringraziarvi del vostro lavoro, dell’impegno con cui avete informato i nostri concittadini (...) È stato interessante per me, in questi giorni, ascoltare le cronache e le interpretazioni dei fatti dai diversi punti di vista. Questo confronto tra prospettive differenti, opinioni diverse, diverse valutazioni, è prezioso, per me come per chiunque. E ancora una volta sottolinea l’importanza e il valore della libera stampa. Grazie e buon lavoro».

La qualità del dibattito pubblico, il bene “prezioso” a cui fa riferimento il presidente, è la linfa di ogni sana democrazia; la possibilità di confrontare in maniera civile e costruttiva idee differenti, di ponderare posizioni diversificate, di conoscere l’intero spettro dei temi in campo, sono elementi essenziali di un dibattito pubblico realmente informativo. Spesso però questo non accade ed assistiamo, al contrario, a una sterile contrapposizione di vedute antitetiche proposte in maniera inconciliabile da soggetti condannati all’incomprensione reciproca. Perché? Una delle ragioni fondamentali è che anche il dibattito pubblico all’interno di una comunità, tra i cittadini di una intera nazione e perfino a livello internazionale, ha la natura di un common, di un bene comune. Pensiamoci un istante. I beni comuni si caratterizzano per la loro “non-escludibilità”, l’impossibilità di escludere legittimamente qualcuno dal godimento di quel bene e la “rivalità”, il fatto, cioè, che il bene si consuma con l’uso, che può essere soggetto a degradamento e questo, naturalmente, può pregiudicare il pieno godimento del bene da parte di altri.

Per quanto riguarda la prima caratteristica, la “non-escludibilità”, il discorso è molto semplice. Soprattutto oggi, con la diffusione capillare di molteplici mezzi di comunicazione a costi irrisori, le informazioni sono liberamente disponibili a chiunque voglia recuperarle. Semmai il problema non è la loro scarsità, ma il sovraccarico informativo che può produrre un effetto di rimbalzo e di allontanamento.

Per quanto riguarda la seconda caratteristica, invece, la “rivalità”, le cose sono leggermente meno intuitive. In che senso il bene “dibattito pubblico”, può consumarsi? Nel senso che anche la logica di funzionamento del dibattito pubblico, come quella degli altri beni comuni, è soggetta all’azione dei free-rider, degli opportunisti che vorrebbero godere di tutti i benefici di uno sfruttamento intensivo del bene, senza porre in essere le necessarie cautele per preservarne l’integrità. Come gli allevatori del famoso esempio di Garrett Hardin, più volte richiamato su queste pagine, scelgono di portare al pascolo un numero via via crescente di mucche fino a distruggere completamente il pascolo comune, anche nella comunicazione pubblica c’è sempre la tentazione di perseguire individualmente il proprio interesse senza badare alle conseguenze che queste scelte possono avere per tutti gli altri. Pratiche opportunistiche, in questo senso, sono, per esempio, quelle che suggeriscono un titolone strillato al limite dell’insulto («La gretina va dal Papa»), la riproposizione di una tesi magari screditata (»Riscaldamento del Pianeta? Ma se fa freddo!»), l’utilizzo di un linguaggio offensivo o sboccato («Bastardi islamici», «Ciao ciao, Culona») o semplicemente sciatto («Cinese muore accoltellato: è giallo»).

Questi titoli garantiscono la vendita di qualche copia in più, così come la condivisione di un contenuto controverso può generare un aumento dei “like” e l’estremizzazione delle posizioni può generare consenso in un’audience o in un elettorato fortemente polarizzato. In tutti questi casi si ha da una parte un beneficio individuale, privato, e un danno collettivo. La qualità del dibattito pubblico scade per tutti. Un’altra delle ragioni che ci fa accomunane il dibattito pubblico ai beni comuni è il fatto che difficilmente questi possono essere tutelati per legge. Esistono le leggi contro la diffamazione, certamente, esiste anche l’ordine dei giornalisti che può sanzionare comportamenti scorretti, ma queste due vie vengono intraprese raramente e sempre in casi estremi. Ma ciò che conta davvero è la normalità del dibattito, quello che vediamo in TV, leggiamo sui giornali, scriviamo e condividiamo tutti i giorni sui nostri social. È questo il terreno sul quale misurare la qualità della vita della nostra infosfera. Come proteggere, dunque, questo bene prezioso? Occorre promuovere una coscienza diffusa relativamente all’importanza del ruolo sociale giocato da un’informazione e un dibattito di qualità e, contemporaneamente, dei costi associati, invece, al suo degradamento. Il secondo passo è quello di far emergere gli interessi in gioco, le logiche nascoste dietro le apparenze delle prime pagine o dei siti Web. Il terzo passaggio è quello dell’esercizio consapevole della scelta, quello che alcuni chiamano “voto col portafoglio”, altri “punizione altruistica”. Si tratta di decidere di premiare con le proprie scelte d’acquisto solo quei fornitori che ci garantiscono alta qualità, anche indipendentemente dagli orientamenti di fondo. Ricordo sempre il caso di un mio amico che per farsi un’idea precisa dell’andamento della guerra in Iraq acquistava ogni giorno sia Avvenire che il Manifesto.

Associato al voto con il portafoglio c’è anche la punizione altruistica, il fatto di sanzionare informalmente chi propala fake news o avvelena in qualunque altro modo i pozzi dell’informazione. Dal commento sui social alle segnalazioni all’Agenzia per le Garanzie nelle Telecomunicazioni (Agcom) esiste un vasto spettro di sanzioni formali e informali che possiamo promuovere in questo senso per far leva sul capitale reputazionale dei produttori di informazioni. C’è un ultimo punto non meno importante degli altri e che ha a che fare con il fatto che oggigiorno tutti noi non siamo solo fruitori e utenti di informazioni ma anche co-produttori. Nel momento in cui facciamo un post sui social, commentiamo una notizia o la ripostiamo nelle nostre pagine, stiamo entrando di fatto nella catena di produzione dell’informazione e della sua distribuzione e, di conseguenza, il tema della qualità del dibattito diventa anche una nostra responsabilità. Non ce ne possiamo in alcun modo chiamare fuori.

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