mercoledì 17 gennaio 2024
Intervista all'ereditiera e attivista Abigail Disney: «E' giunto il momento di mettere in discussione questo modello produttivo»
La carica di Abigail: «La Disney di mio nonno, sogno amaro per chi ci lavora»
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«Che cosa direbbe mio nonno se sapesse come vivono oggi i dipendenti della Disney?». Il nonno in questione è Roy Disney, che con il fratello Walt nel 1955 ha fondato Disneyland, il primo della catena di “posti più felici della Terra”. La scoperta che non lo sono per la maggior parte dei loro dipendenti da anni turba profondamente Abigail Disney. Ma l’ereditiera, pur detenendo azioni dell’azienda di famiglia (meno del 3%, secondo il fratello) e traendo da sempre enormi benefici dai suoi profitti, non ha alcun potere decisionale né ruolo manageriale nella società del nonno, e ha dovuto trovare altri metodi per cercare di cambiare le cose, e non solo alla Disney. Nel 2019 ha realizzato un documentario, The American Dream and Other Fairy Tales (Il sogno americano e altre favole), che ha puntato un faro sulla retribuzione e le condizioni di lavoro dei dipendenti dei parchi dei divertimenti. L’anno scorso è stata una degli oltre 150 milionari che hanno firmato una lettera aperta agli ospiti di Davos chiedendo tasse più alte per i ricchi. E a luglio è stata arrestata durante un sit-in all’aeroporto newyorkese di East Hampton, che ospita soprattutto jet privati.

Gran parte del recente attivismo dell’ereditiera Disney ha sfidato il divario tra la retribuzione degli amministratori delegati e quella dei loro dipendenti, l’aumento dell’uso di jet privati e il loro impatto sul cambiamento climatico e la responsabilità delle società e del capitalismo oggi. «Amo la Disney più di qualsiasi suo fan al mondo — dice a L’Economia Civile —. È nel mio Dna. Ma se lo presenti come il posto più felice al mondo deve esserlo per tutti. Invece molti dei suoi addetti dormono nelle auto e mangiano alle mense per i poveri. Mio nonno non lo tollererebbe».

Uno degli obiettivi della 63enne è riportare l’umanità nei rapporti di lavoro. «Sono praticamente cresciuta nei parchi di famiglia e ricordo la gente che vi lavora con enorme affetto. Mio nonno, mio prozio e i loro manager facevano del loro meglio per mantenere una relazione personale con molti di loro. Ma ho visto questo rapporto cambiare nel corso degli ultimi decenni».

I cambiamenti che sono avvenuti nella società americana negli ultimi 50 anni, secondo Abigail, sono in parte filosofici e hanno portato a una svolta nel modo in cui i lavoratori sono percepiti. «Hanno smesso di essere visti come collaboratori e hanno iniziato ad essere visti come una spesa. È una mentalità che disumanizza il dipendente. Allora è chiaro che le pensioni sono state tolte e che fornire un’assicurazione sanitaria è diventato raro. L’accento non è più su condizioni eque ma sulla produttività».

Abigail Disney denuncia stipendi da fame, l’assenza di giorni di malattia pagati, ma anche la «programmazione dinamica», in base alla quale l’azienda fissa gli orari di lavoro di settimana in settimana in base ai suoi bisogni, e che può portare a giornate brevi o lunghissime, a dieci giorni in servizio di fila e persino a due turni da quattro ore nella stessa giornata, rendendo quasi impossibile pianificare tutti gli altri aspetti della vita o cercare un secondo lavoro. «La programmazione dinamica è una relativa novità che riduce profondamente la qualità della vita — spiega Disney —. È nata nelle scuole di business ed è stata subito adottata da McDonald’s e Amazon perché è un ottimo modo per tenere i dipendenti sempre a disposizione».

La filantropa, che ha già dato in beneficienza 73 milioni di dollari, pur ammettendo che avrà sempre più che abbastanza soldi per vivere, si è resa conto col tempo che molte grandi aziende, compresa la Disney, preferiscono che gli addetti non rimangano a lungo nei loro ranghi. «Di tutte le cose che ho scoperto, è stata quella che mi ha infastidita di più, perché la Disney è nata come un posto dove la fedeltà era premiata. Ma la maggior parte dei datori di lavoro ora si dicono che più a lungo hanno qualcuno in azienda, più rivendicheranno condizioni migliori. E diventa accettabile che chi rende magica l’esperienza Disney per gli altri viva vicino alla disperazione».

Abigail ha criticato pubblicamente il Ceo dell’azienda, Bob Iger, per il suo stipendio annuo di 65 milioni di dollari e per aver definito «irrealistici» i lavoratori che chiedono un trattamento migliore. «Puoi chiamare i tuoi collaboratori, perché sono tutti collaboratori, dai creativi agli spazzini che puliscono i parchi di notte, “irrealistici” solo se non sei capace di pensare al di fuori del minuscolo modello di business con cui operi — aggiunge Disney —. Ma l’intero modo in cui stanno conducendo gli affari non funziona più».

Il recente aumento ai dipendenti Disney a 15 dollari l’ora, dunque, per Abigail non è abbastanza. Occorre che gli amministratori delegati cambino il loro modo di operare, e se non sono disposti a farlo, che il governo intervenga. Come? «Le leggi americane sono state scritte per favorire il capitale — spiega —. Ma negli anni ‘50, ’60 e ’70 c’era un certo equilibrio perché il governo osava ancora assicurarsi che la logica del profitto non prendesse il sopravvento. Quindi ogni tanto introduceva misure di protezione dei dipendenti e di ridistribuzione della ricchezza. Non succede da molto tempo».

Abigail Disney caldeggia misure che mettano un tetto alla paga dei Ceo e limitino le agevolazioni fiscali e i guadagni offshore per loro e per le grandi aziende e che proteggano di più i lavoratori. «Se un dipendente a tempo pieno è costretto a chiedere i buoni pasto per i poveri, dovrebbe scattare una sorta di indagine, perché c’è qualcosa che non va — sostiene —. Vorrei che la Disney fosse un punto di partenza. Forse gli americani si aspettano meno da Amazon e da McDonald’s, ma un’azienda che è vista come una parte integrante del sogno americano può fare da battistrada».
Da quando ha lanciato le sue proposte, con il documentario e appelli pubblici, però, l’ereditiera non ha ricevuto alcun commento dall’interno dell’azienda di famiglia. «Sanno come contattarmi. Mi piacerebbe discutere con loro». A suo dire anche le business school, che hanno un’influenza enorme sulla mentalità della gestione degli affari negli Usa, devono insegnare in modo diverso. «Penso che sia giunto il momento di mettere in discussione la nozione secondo cui il capitale appartiene solo ai proprietari quando in realtà non possiamo ottenere nulla senza i lavoratori. Stiamo sbagliando il capitalismo».
Ed è possibile rivedere il modo di applicarlo, è convinta Abigail, ma occorre ripensare qual è l’obiettivo di un’economia. «Detto così sembra follemente ambizioso. Ma c’è voluto molto tempo per scavare un buco così profondo e ci vorrà molto tempo e lavoro per uscirne».
Abigail è stata accusata di difendere idee socialiste. «Agli americani fa paura parlare di ridistribuzione — dice —. Parliamo allora di pre-distribuzione. Ora i soldi vanno tutti a una classe. Se strutturassimo le cose in modo che il denaro vada più direttamente e uniformemente a più persone, ci sarebbe meno bisogno di ridistribuirlo a posteriori. Sono convinta che succederà, perché la Generazione Z e molti millennial sono pronti a farlo succedere».

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