mercoledì 9 febbraio 2022
La logica della reciprocità è in funzione anche in una relazione lavorativa: impegnarsi di più converrà sia al lavoratore che al datore di lavoro
L'imprenditore statunitense Henry Ford

L'imprenditore statunitense Henry Ford

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La reciprocità, l’abbiamo visto nella puntata precedente de 'La cura delle radici', è un principio potente. Una norma sociale universalmente diffusa, formalizzata in tutti i principali codici morali e religiosi, un 'universale morale', direbbero i filosofi. Un principio così potente da interferire perfino con il funzionamento dei mercati economici. I mercati, il regno del 'self-interest', nella lettura più semplicistica, appaiono quanto di più lontano dall’etica della reciprocità, da ogni etica, a dire il vero. Eppure, le cose non stanno proprio così. Era il 5 gennaio del 1914 quando Henry Ford annunciò un piano di ristrutturazione organizzativa epocale per le sue fabbriche e per i suoi lavoratori. I pilastri di questo piano erano essenzialmente due: la riduzione dell’orario di lavoro da nove a otto ore al giorno e l’aumento della paga giornaliera da 2,34 a 5 dollari; più che raddoppiata. Questi due provvedimenti, da soli, facevano aumentare i costi di dieci milioni di dollari, mangiandosi la metà dei profitti previsti per quello stesso anno. Ma Ford si dimostrò irremovibile; contro il parere di tutti gli analisti finanziari, decise di andare dritto per la sua strada. E fece bene. Quell’anno, infatti, benché il salario aumentò del 105%, il costo del lavoro registrò un aumento solo del 35%. Questo perché assieme al salario aumentò anche la produttività dei lavoratori, con un incremento del 50%, si ridusse il turn-over, dal 54 al 16% e sparì quasi del tutto l’assenteismo, passando al 10 al 2,5%.

Grazie a questi numeri i profitti invece di diminuire, crebbero dai 27 milioni di dollari del 1913 a più di 40 milioni nel 1915. Cos’era successo? Era successo che Ford era riuscito ad intuire che anche sul posto di lavoro il principio di reciprocità è una leva potente che motiva ed agisce. Dietro il comportamento del loro datore di lavoro gli operai videro un’intenzione positiva e decisero di reciprocare. Ford aveva deciso di pagarli più di quanto avrebbe dovuto e per questo loro decisero di assentarsi meno, di lavorare meglio e di smettere di cercare posti di lavoro migliori, visto che quello che avevano era improvvisamente diventato il migliore. Lo stesso Ford commentò in questo modo quella svolta epocale: «Non era certamente una forma di beneficenza (…) Volevamo pagare alti salari in modo che la nostra attività si potesse fondare su basi durature. Stavamo costruendo per il futuro. Un’attività con bassi salari è sempre insicura (…) Il pagamento di cinque dollari al giorno per una giornata di otto ore è stata una delle migliori mosse di riduzione dei costi che abbiamo mai fatto». Daniel Raff e Larry Summers, gli economisti dell’Università di Harvard che hanno analizzato il caso, concludono il loro studio così: «Sebbene sia ovvio che raddoppi improvvisi dei salari non sono diventati comuni anche dopo le azioni di Ford, ci sono prove che la scelta di Ford abbia comunque influenzato i modelli salariali (…) Poiché altre aziende alla fine hanno introdotto le tecnologie Ford, hanno emulato le sue politiche sugli alti salari.

Nel 1928 [nell’industria automobilistica] i salari erano superiori di quasi il 40% rispetto al resto dell’industria manifatturiera' ('Did Henry Ford Pay Efficiency Wages?' Journal of Labor Economics, 5(4), pp. S57-S86, 1987). Osservazioni come queste hanno portato all’elaborazione di diverse teorie che vanno sotto il nome di 'salari di efficienza' e che descrivono una relazione di lavoro, per usare l’espressione del premio Nobel George Akerlof, come uno 'scambio parziale di doni' (partial gift-exchange). L’idea è semplice: il datore di lavoro paga più di quando dovrebbe (il salario di equilibrio) e i lavoratori sfruttano meno di quanto potrebbero l’asimmetria informativa a loro vantaggio. In ogni relazione di lavoro, infatti, i lavoratori possiedono informazioni sulla loro condotta che il datore di lavoro può verificare solo in maniera imperfetta. Si può certamente verificare se il lavoratore è arrivato puntuale ed ha passato sul posto di lavoro le ore pattuite, ma non si può andare molto oltre con il controllo. Non si può verificare se, per esempio, quanto il lavoratore si sia effettivamente impegnato, quanta motivazione, ingegno, creatività abbia posto nel compito che gli è stato assegnato. Le sue azioni sono in parte inosservabili. Questa è la natura dell’asimmetria informativa e la sorgente di quello che si chiama azzardo morale, una forma di opportunismo postcontrattuale. Assumendo che sia il datore di lavoro che i lavoratori siano totalmente autointeressati, una situazione del genere dovrebbe vedere i lavoratori lavorare il meno possibile e il datore di lavoro, per questo, pagarli il meno possibile. Le teorie dei salari di efficienza invece vanno in un’altra direzione, perché prendono in considerazione la reciprocità. La verifica empirica di queste teorie è sempre stata problematica.

Oggi, però, con l’avvento dell’economia sperimentale le cose sono cambiate. Ernst Fehr e Simon Gächter, due pionieri del campo, hanno studiato queste dinamiche attraverso un paradigma sperimentale chiamato 'gift-exchange game' (il gioco dello scambio di doni). Analizzando varie forme di incompletezza contrattuale come quelle che abbiamo descritto poco sopra, essi individuano una gamma di situazioni nelle quali, contrariamente a quanto previsto dalla teoria standard, anche i contratti incompleti vengono siglati, onorati e portati a compimento in maniera efficiente. Perché la logica della reciprocità è in funzione anche in una relazione lavorativa, allora impegnarsi di più converrà sia al lavoratore che al datore di lavoro il quale, cosciente di questo sarà disposto a fidarsi, offrendo, senza alcuna garanzia ex-ante, livelli salariali superiori ai valori di equilibrio. I dati sperimentali confermano questa previsione dei salari di efficienza e mostrano come paghe più elevate facciano scaturire un impegno maggiore da parte dei lavoratori. Anche nei mercati, come quello del lavoro, dunque, la logica della reciprocità plasma e orienta i nostri comportamenti. Occorre tenerne conto, quindi, anche quando parliamo di beni comuni. Il rischio, infatti, è quello di costruire istituzioni e forma di regolamentazione che ignorando il funzionamento di questi principi, li distrugga portando, di fatto, ad esiti contrari rispetto a quelli auspicati.

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