mercoledì 30 giugno 2021
La Conferenza di Canada e Usa ha annunciato che l’ordine raccoglierà 100 milioni per finanziare borse di studio e spese sanitarie da destinare ai pronipoti delle persone ridotte in schiavitù
I gesuiti che ristorano la ferita della tratta
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Viviamo un tempo nel quale il confronto con la storia può condurre a comportamenti opposti: da un lato il rifiuto di determinate figure e situazioni, pensiamo alla auspicata o effettiva demolizione di tante statue dedicate a personaggi ambigui; dall’altro una più meditata presa di coscienza, disponibile ad apprendere da sbagli e malefatte, magari a porvi in qualche modo riparo. Prendiamo come simbolo di questo secondo atteggiamento alcuni progetti avviati dai gesuiti statunitensi negli ultimi anni. Il punto di partenza: ammettendo una responsabilità storica indubitabile, l’ordine fondato da Ignazio di Loyola nel 1540 ha iniziato a fare i conti con un lato oscuro del passato, aver alimentato le proprie missioni negli Stati Uniti del XIX secolo anche attraverso la detenzione e il commercio degli schiavi. Accettato questo, si tratta di indagare sulla conoscenza di tale passato per ideare tangibili forme di riconciliazione e restituzione, di concerto con le associazioni dei discendenti degli schiavi posseduti e venduti dai gesuiti americani. Di recente, Timothy Kesicki, presidente della Conferenza dei gesuiti di Canada e Stati Uniti, ha pubblicamente dichiarato che l’ordine raccoglierà cento milioni di dollari per destinarli ai pronipoti delle persone schiavizzate. L’annuncio non è certo passato inosservato tra i media; il New York Times ha definito l’annuncio di Kesicki uno dei più grandi sforzi della Chiesa cattolica romana nel fare ammenda per il proprio coinvolgimento nella tratta. Come sarà utilizzato questo denaro, che dovrebbe tra l’altro essere solo la prima tranche di una somma ancora più grande, destinata a essere versata regolarmente in futuro? Per deciderlo, la celebre università di Georgetown ( Washington, DC) ha avviato una collaborazione continuativa con la GU272 Descendants Association, così chiamata in memoria di 272 schiavi. Erano uomini, donne e bambini e furono venduti nel 1838 proprio dai padri di Georgetown a proprietari di piantagioni in Louisiana. Il prezzo fu di 115.000 dollari, corrispondenti oggi a più di tre milioni di dollari. Il ricavato servì a salvare il college, ai tempi nostri stabilmente posizionato tra le prime trenta università statunitensi. Obiettivo raggiunto, dunque, ma a quale prezzo? Un prezzo che va almeno in parte risarcito. Il lavoro congiunto Georgetown/GU272 ha stabilito che il denaro raccolto e da raccogliere finanzierà borse di studio e aiuti all’istruzione, sosterrà programmi culturali collaborativi volti allo smantellamento dell’eredità schiavista e alla promozione della racial justice, aiuterà i discendenti meno abbienti nelle spese sanitarie e di necessità. Altre destinazioni non sono escluse. Il primo milione di dollari riguarda dunque Georgetown, che però non è sola. Simili progetti sono stati avviati in altre istituzioni gesuitiche come per esempio il College of Holy Cross (Massachusetts), l’università di Xavier (Ohio) e quella di Saint Louis (Missouri). Proprio con l’Università di Saint-Louis e con Danielle Harrison, co-direttrice di un progetto attivo dal 2016, abbiamo dialogato per conoscere più nel dettaglio lo Slavery, History, Memory, and Reconciliation Project: Schiavitù, Storia, Memoria e Riconciliazione. Il punto fondamentale è rappresentato, secondo Harrison, dall’ascolto delle voci degli schiavi attraverso i documenti e dei loro discendenti attraverso la conoscenza e l’incontro, così da garantire loro il rispetto e la dignità negata per più di un secolo. L’impatto di un passato a lungo accantonato si riconosce ancora oggi e non è sempre concretamente misurabile. Il primo passo dell’azione di riconciliazione e restituzione ha portato alla non ancora conclusa identificazione degli eredi delle persone in schiavitù. Solo attraverso una stretta collaborazione con questi ultimi, ne è convinto chi è impegnato nell’ambizioso programma, si possono riconoscere le priorità di quanti si trovano in stato di necessità e dunque stabilire i migliori modi di utilizzare i dollari che sono stati e saranno raccolti. È indispensabile spendere bene, fare degli investimenti a esclusivo beneficio della comunità dei discendenti, unica legittimata a definire i propri bisogni. Bisogna conoscere la storia per non indulgere in una falsa narrazione della schiavitù, ci ha detto Harrison, aggiungendo: la verità è il principio guida del progetto. La società statunitense per troppo tempo ha evitato di guardare alle reali ripercussioni del sistema schiavista, ed è anche per tale ragione che il paese soffre di un razzismo sistemico e istituzionale. La storia, insiste Harrison, può, deve aiutare lo sviluppo di un’economia etica. È in grado di farlo solo dicendo, studiando e incoraggiando a vivere la verità, perché il passato non rimanga un fragile ricordo ma agisca nella trasformazione virtuosa del presente. Abbiamo sottolineato nel dialogo con Danielle Harrison come progetti simili possano essere molto importanti non solo per gli Usa, ma per chiunque nel mondo voglia contrastare le disuguaglianze del presente lasciandosi aiutare dalla storia. C’è un’indubbia dimensione globale della questione, ci ha confermato. Parlando di gesuiti, non si deve negare come il loro coinvolgimento nel sistema schiavista abbia raggiunto anche il Sudamerica, l’India e altri paesi asiatici. Ragionando sulla riconciliazione e sui modi differenti in cui essa può concretizzarsi, l’esempio di altre comunità e paesi potrebbe essere estremamente utile, auspicando però che il modello da lei chiamato 'guidato dai discendenti' (Descendant-led) sia abbracciato da tutti. L’insegnamento che possiamo trarre noi osservatori dall’altra parte dell’Atlantico è almeno duplice: in primo luogo impariamo come sia possibile accettare in quanto comunità i propri errori, anche assai gravi, studiarli e decidere di lavorare per farli fruttare. In seconda battuta, apprendiamo che lo studio della storia è in grado di dare il via alla costruzione di un programma di investimenti volto alla definizione di un futuro più equo.

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