mercoledì 17 gennaio 2024
Agisco perché interagisco: l'identità e quel continuo gioco di specchi
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Chi decide quando decidiamo? Cioè chi decide veramente, quando noi prendiamo una decisione, come si dice, in totale autonomia? Noi stessi, si risponderà, con il nostro raziocinio e, al limite, con i nostri sentimenti. Testa e cuore, insomma. In realtà sono molti gli elementi che interferiscono con quello che crediamo essere il nostro “io decidente”. Per esempio: certi odori nemmeno li percepiamo, non li riconosciamo eppure modificano il nostro comportamento, siano essi odori piacevoli, attrattivi, o siano segnali di pericolo, come la puzza di bruciato, per cui ci avviciniamo o ci allontaniamo da qualcuno o qualcosa, e scappiamo (decidiamo razionalmente di scappare?) da certi luoghi. Sembrerebbe cioè che a decidere non sia propriamente io, ma la mia relazione con qualcosa, nel nostro caso, con un odore. O ancora: la maggior parte di noi, almeno in qualche ambito, segue la moda. Se non nell’abbigliamento, magari nella scelta dei vini o delle destinazioni per le vacanze, nella letteratura o nell’arredamento, nel linguaggio o nell’acquisto dell’auto.

Le mode che seguiamo sono quelle di cui non ci accorgiamo, o che non vogliamo troppo ammettere. Forse le seguiamo per la necessità di una rassicurante accettazione sociale o per il solo istinto gregario, che ci porta ad uniformarci su cose che riteniamo di poco conto, negoziabili, sebbene su altre siamo pronti a dare battaglia. O forse perché il nostro gusto è plasmato temporaneamente da un flusso collettivo, da una sovraesposizione a una forma, a un colore, a un sapore, a un suono. Fatto sta che, anche in questi casi, le nostre decisioni sono frutto di una trattativa, pur inconsapevole, fra i nostri “io” e alcune dinamiche esterne a noi. In estrema (e semplificata) sintesi: le nostre azioni sono frutto dell’interpretazione della realtà, o meglio, dell’esperienza e delle percezioni che abbiamo della realtà. Ma il processo interpretativo è il prodotto di una cultura e di una forma mentis, che abbiamo acquisito e modellato nel tempo, ed esse sono a loro volta figlie del nostro stare immersi in una rete di relazioni, con gli altri, con gli oggetti, con l’ambiente. Ergo: le nostre azioni discendono dalle nostre relazioni. Inoltre, le relazioni sono uno strano animale, con più facce, perché sono sempre biunivoche e plurime: noi stessi siamo oggetto di lettura e interpretazione da parte degli altri e a vicenda ci modelliamo idealmente, nelle rispettive menti, siamo osservatori e osservati. Questo continuo gioco di specchi induce infine ad assumere determinati comportamenti e a compiere certe azioni, che possano rispondere alle aspettative altrui, che vi si oppongano, che tentino di modificarle e di instaurarne di nuove...

Pensiamo a una famiglia, a un team di colleghi, ma anche alla finanza, alla politica, a qualsiasi struttura sociale con le sue interazioni. La nostra identità è organizzata per relazioni, con persone e cose, ed è vista e interpretata così anche dagli altri. Noi stessi siamo il risultato dell’azione nostra e degli altri. Questa situazione fluida disegna una mappa del mondo in cui tutti gli elementi sono connessi, e non solo a un livello spirituale, mentale o culturale, bensì fisico, materiale, fattuale. Dimenticare questa interconnessione necessaria ed esaltare unicamente il valore dell’individuo in quanto ente autonomo e autodeterminato rischia di far perdere di vista lo scenario complessivo (e complesso), che è ben più interessante e gnoseologicamente fruttifero. Del resto, il concetto di individuo è una stranezza antropologica, poiché nemmeno esiste nella maggior parte delle società del mondo. Pare strano, visto che tutto il diritto occidentale e buona parte della filosofia sottostante si basano proprio sull’idea di individuo, per cui ai nostri occhi è l’unità di misura per eccellenza; eppure dell’insufficienza di questo concetto abbiamo già scritto su queste colonne, con il supporto della biologia, della filosofia e dell’antropologia, introducendo il concetto di “condividuo”, in quanto soggetto indissolubilmente legato ad altri soggetti come propria condizione di esistenza. Molti sanno che nella lingua Bantu vi è la parola “ubuntu”, che si può tradurre con “io sono perché noi siamo”.

Questo concetto si fonda proprio sull’idea che l’individuo di fatto non esista come in-divisibile, come identità unica e unitaria, ma che invece sia ciò che è in funzione delle relazioni che intrattiene. L’essenza di ciò che siamo è dunque legata non a un concetto, ma a una pratica: diventi qualcosa nel tempo, attraverso azioni e pensieri connessi con gli altri e con l’ambiente. Una filosofia che implica comunque un richiamo ineliminabile alla responsabilità, personale e sociale, in modo non separabile: ciò che fai come singolo è inscindibile dall’ambiente che modifichi e che plasmi attorno a te. E nell’ambiente attorno a te sono inclusi altri singoli, a loro volta legati in modo inscindibile a te, fra loro e con l’ambiente. Tutto ciò fa del concetto di individuo un’idea residuale, concepibile certo, ma meno decisiva di quanto si creda. E con esso, anche l’idea di identità necessita di un riassetto importante, perché l’alterità è costitutiva della nostra identità. Tradotto: noi non esistiamo senza gli altri.

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