sabato 16 dicembre 2023
Aumentano le donne che lasciano il lavoro dopo la maternità, tassi di occupazione femminile e retribuzioni più basse della media Ue
Madri al lavoro, aiutarle conviene. È boom di certificazioni
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Le dimissioni dal proprio impiego nei primi tre anni di vita del figlio sono state 61.391 nel 2022, con un aumento di oltre il 17% rispetto all’anno prima. Questo fenomeno, secondo gli ultimi dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro, nel 72% dei casi riguarda le donne che in 44mila hanno rinunciato al lavoro alla nascita del primo figlio. Motivo? La faticosa conciliazione tra vita familiare e vita lavorativa. Anche il rapporto Inapp conferma questo costante divario strutturale che riguarda l’occupazione femminile inferiore per quantità (solo il 40%), per ore lavorate, per tipologia di contratto e per compenso salariale. Per citare un dato soltanto nel 2022 il 58,5% delle assunzioni agevolate delle donne è stato con un orario part-time contro il 32,2% degli uomini; e in totale le nuove assunzioni lo scorso anno hanno riguardato solo per il 46% lavoratrici donne. In Europa si stima inoltre che le donne guadagnino in media il 12,7% all’ora in meno rispetto agli uomini, valore che si attesta intorno al 5% in Italia. I motivi attribuibili a questa discriminazione salariale sono disparati, dal livello di istruzione, all’esperienza lavorativa, fino ad arrivare ai ruoli occupazionali e manageriali diversi.

In questo scenario occupazionale che vede le donne penalizzate rispetto agli uomini molte aziende stanno promuovendo il loro impegno per ridurre il divario di genere e favorire un ambiente lavorativo più inclusivo, che in moltissimi casi, significa arrivare a ottenere una certificazione di parità di genere. La finalità è chiaramente favorire l’empowerment femminile a livello aziendale: «Non, per forza, si deve raggiungere la stessa parità di presenza, ma sarebbe arricchente avere delle differenze piuttosto che un pensiero uniforme, avere per esempio più visioni femminili nelle Stem (le discipline scientifico-tecnologiche, ndr) potrebbe arricchire il settore» ha spiegato Luca Furfaro, esperto di politiche del lavoro e welfare. Con 68,2 punti su 100 l’Italia è al 13° posto tra i Paesi dell’Unione Europea nell’indice calcolato sulla uguaglianza di genere: la strategia nazionale entro il 2026 prevede di contribuire a incrementare di 5 punti questa classifica elaborata dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige).

Ma per le aziende quali sono i vantaggi una volta ottenuta, a pagamento, la certificazione per la parità di genere? Perché ricorrere a tale attestato? Sono molte le aziende ad aver conseguito, negli ultimi mesi, la certificazione per la parità di genere che, di fatto, consiste nel misurare la possibilità di crescita per le donne, la parità salariale a parità di mansioni, le politiche di gestione delle differenze di genere e la tutela della maternità. Questo improvviso aumento di certificazioni può essere collegato alla contestuale concessione di contributi alle aziende, in particolare alle micro, piccole e medie imprese. Si tratta di una misura del Pnrr a titolarità del Dipartimento per le pari opportunità: dal 6 dicembre fino al 28 marzo 2024 è possibile farne richiesta. Ci sono 10 milioni messi a disposizione, di cui 8 per le Pmi che andranno a coprire i costi della procedura di certificazione, ma anche l’assistenza tecnica e la preparazione a ottenerla.

Va ricordato che la parità di genere è stata introdotta nel nostro ordinamento giuridico con la legge Gribaudo (Legge n. 162 del 5 novembre 2021): tale norma ha inserito nel Codice per le Pari Opportunità (D. Lgs. n. 198/2006) l’art. 46-bis, con cui dal 1° gennaio 2022 le imprese hanno potuto dotarsi della Certificazione che attesta le misure adottate dal datore di lavoro per ridurre il divario di genere all’interno dell’azienda. Oltre a essere presente nell’agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile, questo impegno per l’uguaglianza lavorativa per genere è un obiettivo europeo, inserito nel Pnrr italiano – tra le priorità assieme al sostegno al Mezzogiorno, ai giovani e al riequilibrio territoriale – e attraverso un piano di attuazione prevede l’obbligo minimo di una relazione biennale sulla situazione aziendale in tema di parità di genere. A cui si aggiunge la certificazione della parità di genere: sebbene non obbligatoria, essa offre l’accesso a diversi incentivi, tra cui uno sgravio sui contributi che l’azienda versa a favore dei lavoratori. Più nel dettaglio il sistema prevede un meccanismo di premialità: tutte le aziende che richiedono e conseguono il certificato hanno un vantaggio contributivo dell’1%, oltre alla possibilità di un miglior punteggio in bandi per finanziamenti e appalti che stanno premiando maggiormente anche gli standard di comportamento etici.

In altre parole, le aziende hanno ragioni tutte economiche per adeguarsi alla parità di genere: «Ogni azienda può richiedere la certificazione della parità di genere: verranno presi in considerazione per l’analisi diversi parametri, detti Kpi, in relazione a sei aree di valutazione: partendo da come sono scritti gli annunci di lavoro affinché non siano discriminatori e dal processo di selezione, passando all’aspetto retributivo per genere e alle politiche di welfare, in particolare quelle per la famiglia, e anche l’equa distribuzione tra i sessi nelle posizioni manageriali e direzionali – ha spiegato ancora Furfaro –. Nello specifico le aree di valutazioni sono: cultura e strategia, governance, processi human resources, equità remunerativa, opportunità di crescita e inclusione e infine, genitorialità e conciliazione vita-lavoro. A ogni parametro è associato un punteggio e la loro misurazione deve raggiungere un minimo complessivo del 60%». La certificazione ha validità triennale ed è soggetta a monitoraggio annuale: ci possono essere però alcuni casi in cui l’azienda ottiene il certificato con alcune lacune; queste lacune aziendali rispetto alla parità di genere vengono analizzate e vengono forniti correttivi o suggerimenti per colmare tali mancanze.

Al di là delle certificazioni, una reale parità di genere deve essere perseguita dalla società nel suo complesso perché l'autonomia e l'indipendenza economica sono le basi per qualsiasi progetto di vita. Soprattutto quello di una famiglia. Ma anche perché un sistema economico che tratta allo stesso modo uomini e donne, e che insieme all’istruzione è capace anche di investire sull’educazione finanziaria, ha molte più probabilità di rafforzare la sua competitività e la sua sostenibilità nel tempo.

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