La «continuità» promessa tra costi alti e ambiente
giovedì 28 dicembre 2023

In attesa di trovare un cavaliere bianco per disarcionare Arcelor Mittal, il governo potrebbe estrarre il Bianconiglio dal cappello. Con una nazionalizzazione a tempo determinato di Acciaierie d’Italia, si giocherebbe l’ultima carta del mazzo, sperando di evitare lo spegnimento degli ultimi due altoforni dell’Ilva di Taranto. La Meloni non è Alice nel paese delle meraviglie – anche se neanche Lewis Carroll si era immaginato un governo che ha il 38% di una società di cui non sa nulla, a partire dai patti parasociali firmati dai governi precedenti - ma c’è da giurare che, quando i suoi ministri lo tireranno fuori dal cappello davanti ai sindacati inferociti, anche questo Bianconiglio ripeterà “povero me, povero me”.

Come dargli torto? Il ministro Urso assicura che l’Ilva non si fermerà ma servono 320 milioni per crederci. Un aumento di capitale – con diritto d’opzione per i soci che può essere offerto anche a terzi e con l’acquisto degli impianti ex Ilva dalla procedura di amministrazione straordinaria, allo scopo di avere le garanzie necessarie per accedere al credito bancario - cui il socio di maggioranza indiano, con il suo ostinato silenzio, ha già chiarito che non parteciperà, neanche in minima parte. Arcelor Mittal si sta disimpegnando dall’Europa, dove la produzione di acciaio da ciclo integrale sta buttando fuori mercato tanti stabilimenti, come Taranto. Solo il Cappellaio Matto può sostenere che «è impossibile solo se pensi che lo sia», quando si producono tre milioni di tonnellate ma il breakeven è sei e ogni milione comporta l’emissione di due milioni di tonnellate di anidride carbonica e quindi, nella prospettiva del 2029, ti comporta un costo aggiuntivo di 800 milioni di euro, in tasse per la decarbonizzazione.

È la condizione dell’Ilva ma anche di altri. Le cose si fanno più complicate, certamente, se nei due anni di boom dell’acciaio tutti hanno guadagnato e tu hai continuato ad arrancare, ma la fuga dall’Europa della siderurgia (e a cascata di altri settori, come l’automotive) è resa inevitabile dalle politiche ambientali dell’Europa e sarà sempre più evidente man mano che ci avvicineremo alla deadline della decarbonizzazione, deliberata da Bruxelles senza calcolare per bene i costi della transizione. Questa pressione politica, divenuta finanziaria e commerciale, poteva essere alleggerita dal negoziato Usa-Ue sull’acciaio green, se non si fosse messa di traverso la Germania. Per interessi di bottega. Ma torniamo a Taranto. Servono 320 milioni per la “continuità” promessa dal governo e i sindacati chiedono al governo di metterceli.

Non basteranno, lo sanno tutti. Pare che i debiti superino il miliardo. Diciamo “pare” perché il socio di minoranza non ha modo di verificare i conti della società in cui ha messo i soldi ed è vincolato da patti e postille che potrebbero generare un maxi-indennizzo nel momento in cui decidesse di disarcionare il socio indiano. Il ministro Fitto, che studia il caso Ilva da quando aveva i calzoni corti, agita lo spauracchio di un contenzioso con l’Europa su una nazionalizzazione che potrebbe essere considerata un aiuto di Stato. In verità, Bruxelles sarebbe pronta a chiudere entrambi gli occhi di fronte a un’operazione tipo Obama-Chrysler, cioè un finanziamento-ponte, chiaramente destinato a trovare un nuovo socio per Ilva. Ipotesi talmente realistica (diciamo pure l’unica, se si vuole evitare lo spegnimento degli altoforni e la bancarotta) che all’ultimo cda Arcelor Mittal ha depositato una lettera – anche questa segretata – per chiarire che leverà il disturbo solo dietro un equo indennizzo. Del resto, anche per il socio indiano questo è un periodo di grandi investimenti. In India e negli Usa, ma non a Taranto.


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