mercoledì 4 ottobre 2023
Il capoluogo toscano ha seguito l'esempio di altre grandi città mettendo i primi limiti alla diffusione delle case da affittare su Airbnb. Il tema è politico: serve un ripensamento degli spazi urbani
Una vista di Firenze, città da oltre dieci milioni di turisti all'anno

Una vista di Firenze, città da oltre dieci milioni di turisti all'anno - CC Josh Hild via Pexels

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Venerdì il Consiglio comunale di Firenze ha approvato la delibera sugli affitti turistici brevi proposta dal sindaco, Dario Nardella. Il testo vieta l'apertura di nuove residenze temporanee nell'area del centro della città (quella all'interno delle vecchie mura) e azzera l'Imu seconda casa per tre anni ai proprietari che convertono alloggi destinati ad affitti brevi all'affitto lungo. La delibera è passata con i voti di Pd, Sinistra e Gruppo misto, non di Italia Viva, che fa parte della maggioranza. Divisi anche i consiglieri del Movimento 5 Stelle (un favorevole e un contrario). L'obiettivo è andare incontro alla domanda di case da parte di giovani e famiglie e studenti. Attualmente gli appartamenti fiorentini inseriti su Airbnb, la più popolare piattaforma di affitti brevi, sono più di 14mila.


Con i primi limiti agli affitti brevi turistici, approvati dalla giunta lunedì sera, la vecchia Firenze si è messa sulla scia di New York, Parigi, Barcellona e altre grandi città internazionali che hanno riconosciuto di avere un problema nuovo e stanno provando ad affrontarlo. A essere sbrigativi, si potrebbe dire che quel problema si chiama Airbnb, ma la piattaforma californiana per l’affitto di appartamenti ai turisti è solo la causa più vistosa di una malattia straordinariamente diffusa nelle grandi città europee e americane: la carenza di spazi in cui abitare a un costo sostenibile. Questa carenza è il problema. A Firenze, come a Roma, Milano e altri capoluoghi italiani che hanno la fortuna di essere attrattivi, migliaia di persone non trovano la casa di cui avrebbero bisogno, né in affitto né in vendita. Nei grandi centri italiani il mercato immobiliare è sbilanciato: c’è troppa domanda e poca offerta, con il risultato che il costo dell’abitare ha raggiunto livelli sproporzionati rispetto ai redditi, soprattutto a quelli delle giovani famiglie, che sono molto bassi.



Temi come l’esclusione abitativa, la sostenibilità della pressione turistica, la gentrificazione dei quartieri o la privatizzazione degli spazi pubblici non sono roba da sociologi o urbanisti, ma toccano la vita di ogni giorno, incidono sulle scelte di vita delle persone, sono centrali per dare una forma alla società che siamo e che saremo.

In questo contesto Airbnb e le piattaforme simili sono parte del problema, perché contribuiscono a gonfiare la domanda: nella città turistiche affittare la casa a viaggiatori che si fermano solo qualche giorno può essere spesso più redditizio che darla in locazione a una famiglia o a degli studenti. Sicuramente è meno rischioso, perché riduce al minimo l’eventualità di avere a che fare con inquilini che non pagano e non possono essere sfrattati. Sono sempre più numerosi i proprietari di alloggi che hanno fatto questo bilancio costi-benefici e hanno scelto di destinare ai turisti le proprie abitazioni “in più”. C’è anche chi compra case nelle città d’arte già con l’obiettivo di metterle a reddito su Airbnb. È una scelta lecita. Almeno finché la legge lo consente. Nel centro storico di Firenze aprire nuovi appartamenti destinati ad affitti brevi turistici non sarà più permesso. Anzi: il Comune incoraggia i proprietari, con uno sconto sull’Imu, a togliere le abitazioni dalle piattaforme online e rimetterle in affitto attraverso i tradizionali contratti di locazione a persone che in città ci vogliono vivere, non passarci solo qualche giorno di vacanza.



In un Paese in cui quasi l’ottanta per cento della popolazione vive in un’abitazione di proprietà e oltre un quarto delle famiglie ha più di una casa, occuparsi dei problemi della minoranza degli inquilini e degli aspiranti mutuatari difficilmente paga.





È una decisione politica, e non una di quelle che acchiappano voti. In un Paese in cui quasi l’ottanta per cento della popolazione vive in un’abitazione di proprietà e oltre un quarto delle famiglie ha più di una casa, occuparsi dei problemi della minoranza degli inquilini e degli aspiranti mutuatari difficilmente paga. Sono già partite le prevedibili proteste delle associazioni dei proprietari, che rivendicano il diritto di fare dei propri immobili quello che preferiscono. La stessa Airbnb gode di meritata popolarità, perché ha contribuito ad abbassare i prezzi delle vacanze e ha reso abbordabili a milioni di persone mete un tempo più o meno esclusive.

Ci sono legittimi interessi che si scontrano in questa vicenda, trovare l’equilibrio non è scontato. Ma dovrebbe essere proprio questo il lavoro degli amministratori: scegliere ciò che si ritiene importante per la società e trovare il modo di proteggerlo e incoraggiarlo, ridefinendo nuovi equilibri, quando necessario.

Il conflitto tra chi vuole affittare le case ai turisti e chi ne ha bisogno per viverci – a Firenze e in tutte le altre città che vivono lo stesso problema – solleva domande vere sugli spazi che viviamo, coinvolge questioni che non emergono nei dibattiti politici in televisione. A che cosa servono le nostre città? Che cosa vogliamo farne? Per chi vogliamo pensarle? Temi come l’esclusione abitativa, la sostenibilità della pressione turistica, la gentrificazione dei quartieri o la privatizzazione degli spazi pubblici non sono roba da sociologi o urbanisti, ma toccano la vita di ogni giorno, incidono sulle scelte di vita delle persone, sono centrali per dare una forma alla società che siamo e che saremo. La perdita del senso di comunità, l’epidemia di solitudine, la tragica denatalità, fenomeni così comuni nelle nostre città, non sono figli del caso.

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