sabato 5 maggio 2018
La Banca centrale reagisce: i tassi salgono dal 27 al 40%
La Casa Rosada, sede del governo argentino, a Buenos Aires

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L’Argentina è entrata di nuovo in una tempesta economicofinanziaria dalla quale non sarà facile uscire. Come molte altre economie emergenti, il paese sudamericano da qualche mese soffre con particolare intensità un flusso di uscita di denaro verso l’estero. È fisiologico. In America la Federal Reserve ha imboccato la strada del rialzo dei tassi di interesse nel 2016 ed è andata avanti con determinazione fino a portare il costo del denaro dal livello zero all’attuale 1,75%. La banca centrale americana prevede di proseguire con altri due rialzi che porteranno i tassi oltre il 2%, allontanandosi ancora di più dai livelli minimi a cui la Fed li aveva portati per aiutare l’economia a rianimarsi dopo la crisi.

La strategia monetaria americana non è indifferente per il resto del mondo. Interessi più alti rendono gli Stati Uniti un posto più redditizio per gli investitori, con il risultato che i grandi fondi spostano negli Usa il denaro che avevano portato in giro per il mondo in cerca di profitti più alti. Il risultato diretto di questi “traslochi” di fon- di è l’indebolimento delle monete dei Paesi da cui il denaro esce e il rafforzamento del dollaro. Il dollar index, che misura l’andamento della valuta americana rispetto a un paniere internazionale di monete, dopo avere chiuso in calo il 2017 ha imboccato una decisa risalita, con qualche breve correzione al ribasso, da febbraio di quest’anno.

In Asia le mosse della Fed non hanno creato grandi scossoni e anche l’Europa, che ha la sua solidità, non ha subìto conseguenze negative dai rialzi dei tassi americani. Altrove alcune valute hanno sofferto molto questa situazione. La lira turca, per esempio, ha perso il 10% rispetto al dollaro soltanto dall’inizio dell’anno e continua a svalutarsi. Nessuna però è franata come il peso argentino, che nel 2017 ha imboccato una discesa graduale che l’ha portata da 15 a 19 peso per un dollaro e a dicembre ha mostrato i primi segni di cedimento, con cadute del 5% in un solo giorno. Gli scivoloni si sono fatti più frequenti da gennaio. Nelle ultime due settimane la situazione è precipitata. Tra il 26 aprile e il 3 maggio la valuta argentina ha perso il 10% del suo valore, toccando il suo nuovo minimo storico a 23 peso per un dollaro. A quel punto la Banca centrale argentina ha iniziato a reagire con misure drastiche. Ha alzato i tassi tre volte in dieci di giorni, portandoli dal 27,25% al 30,25% a fine aprile, poi al 33,25% questo giovedì e infine al 40% ieri.

L’ultimo rialzo – spaventoso, con questo aumento di 7 punti percentuali in un solo giorno – ha consentito al peso di recuperare qualcosa, ritornando a quota 21 contro il dollaro. Gli interventi a sostegno della valuta nazionale sono già costati 5 miliardi di dollari alla Banca centrale argentina, che ha bruciato così il 10% delle sue riserve in valuta estera. Il governo di Mauricio Macri, al potere da due anni e mezzo, è in grosse difficoltà. Il ministro delle finanze, Nicolas Dujovne, ha assicurato che ridurrà il deficit strutturale di bilancio per quest’anno dal 3,2 al 2,7% chiarendo che «la convergenza verso l’equilibrio fiscale non è negoziabile». La terza economia del Sudamerica ha bisogno di recuperare credibilità agli occhi degli investitori. Ma il contesto per farlo è complicato. L’inflazione è a livelli altissimi, stabilmente sopra il 25% da inizio anno. Sull’economia argentina, che dipende dalle materie prime, pesa poi l’incognita della politica commerciale di Donald Trump, che soltanto martedì ha promesso un’esenzione permanente dai dazi per le importazioni di acciaio argentino.

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