lunedì 9 marzo 2015
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IntroduzioneSono particolarmente contento del titolo che avete voluto dare a questo mio intervento, Il senso di appartenenza alla Chiesa degli Istituti diocesani di sostentamento del clero, in quanto sono convinto che esprima in maniera centrata il senso non solo di quello che ora vi dirò, ma dell’intero Convegno nazionale. Se ci ritroviamo da tutto il Paese per riflettere circa “l’amministrazione del patrimonio agricolo”; se rinnoviamo l’impegno a “seminare fiducia per crescere insieme” è, essenzialmente, all’interno di un orizzonte di comunità ecclesiale, che – anche in questo modo – è chiamata ad essere fedele al suo Signore e all’uomo di questo tempo. 1. Una triplice doverosa premessa 1.1. Che tutto ciò non sia destinato a restare nell’ambito dei buoni propositi, lo chiarisce la stessa delibera della Conferenza Episcopale Italia, in determinazione alla Legge n. 222 che istituisce gli Istituti, laddove precisa che ha diritto a ricevere “il congruo e dignitoso sostentamento” il sacerdote che svolge un servizio alla diocesi in forma non occasionale, ma a tempo pieno. In altre parole, non se ne ha diritto in quanto membri del clero, ma per la missione che si svolge nella Chiesa e su indicazione della Chiesa, sotto il discernimento del vescovo. Non è inutile di tanto in tanto richiamarci queste cose, sapendo quanto il sistema di sostentamento – se da una parte ha contribuito a eliminare tante discriminazioni – dall’altra tende di fatto a deresponsabilizzare e a porre sullo stesso piano chi lavora e chi preferisce fare altro… 1.2. Su tutt’altro fronte, dobbiamo riconoscere con onestà il fallimento del sistema di contribuzione volontaria, legato alle offerte deducibili. Gli ultimi dati disponibili all’anno 2013, le quantificano nella misura definitiva di 11.252.000 euro, con un decremento rispetto all’anno precedente di 586.000 euro, pari a un - 4,9%. Sicuramente influiscono anche la persistenza delle difficoltà economiche e i disagi delle famiglie italiane, derivanti da una sensibile diminuzione del reddito quando non dalla stessa perdita del posto di lavoro. A me in questa sede preme sottolineare che lo sconcerto per tale esito non concerne tanto o primariamente l’aspetto economico, ma proprio quell’appartenenza ecclesiale che l’introduzione di tale forma di solidarietà intendeva esprimere e promuovere. Proprio per questo vi invito a non accantonare troppo frettolosamente questa considerazione, quasi non ci obbligasse a una profonda riflessione. 1.3. La terza premessa mi porta a entrare nel merito della condizione degli Istituti. Un numero significativo di Istituti diocesani – che possiamo quantificare in almeno un centinaio… – da un punto di vista economico e aziendale, semplicemente non si giustifica: hanno costi che non coprono i ricavi o che li intaccano in maniera sostanziale. Si trovano a gestire un patrimonio scarso o comunque non sufficiente per una adeguata e ragionevole redditività, presentano risultati negativi o non soddisfacenti. In questo modo diventano una spesa e non un apporto per il sistema, creando imbarazzanti condizioni di sperequazione tra i diversi Istituti. I criteri di solidarietà che connotano il sistema del Sostentamento Clero – che, per essere concreti, nel 2014 hanno visto destinare 377.000.000 di euro dall’8xmille all’Istituto Centrale – aiutano a superare l’impossibilità dei singoli Istituti di dare una congrua remunerazione ai propri sacerdoti. Questa consapevolezza non può, però, in alcun modo esimerci dal dovere di attuare i necessari interventi di razionalizzazione e di efficientamento per migliorare il funzionamento del sistema. Tale processo non potrà che partire dal superamento di una situazione che vede un numero rilevante di Istituti diocesani non seguire le indicazioni dell’Istituto Centrale quanto all’applicazione delle norme contabili, alla gestione finanziaria e alla rendicontazione preventiva e consultiva dei bilanci. Non nascondiamoci neppure come la stessa mancanza in molti Istituti diocesani di un Collegio di revisori dei conti comporti l’assenza di un serio organo di controllo che possa assicurare maggiore garanzia, sia verso l’interno che verso l’esterno, della correttezza e della trasparenza dell’operato degli amministratori. Eppure – lo sappiamo bene – la prima cosa che ci è chiesta è una “buona amministrazione”, secondo parametri di puntualità, precisione, e trasparenza che vanno perseguiti con responsabilità e quindi con costanza. La correttezza e la veridicità della situazione patrimoniale sono condizioni imprescindibili: sono nell’interesse primario degli Istituti; sono criterio morale ed ecclesiale decisivo. 2. L’orizzonte verso cui tendere Su questo sfondo e senza ignorare i benefici conseguiti, a trent’anni dalla nascita del sistema le nostre valutazioni sull’attuale situazione degli Istituti diocesani di sostentamento del clero devono aprire a una possibile evoluzione. I passi da compiere per favorire razionalizzazione e ottimizzazione del sistema sono anche gli stessi che portano a tradurre in scelte concrete la nostra appartenenza ecclesiale. Non sta a me entrare nei dettagli tecnici; mi limito, quindi, a tracciare l’orizzonte verso il quale tendere senza ulteriori esitazioni. 2.1. Innanzitutto, alleniamoci a ragionare per comunione d’intenti e non per autarchie, destinate queste ultime a risolversi in terreni incolti e in orticelli infruttuosi, che rivelano carenza proprio di senso di Chiesa. 2.2. Nella gestione del patrimonio finanziario è doveroso individuare modalità per impedire la distruzione di valore, per ridurre il rischio e per aumentare il rendimento, arrivando ad attivare e sperimentare investimenti di tipo etico. Una gestione solitaria delle risorse, oltre che un maggior costo, comporta elevati rischi: ci si trova esposti sia per la crescente complessità dei mercati sia per i comportamenti opportunistici messi spesso in atto dalle controparti finanziarie, non sempre rispettose dei nostri interessi e a volte capaci anche di spingerci in investimenti che, nostro malgrado, possono compromettere l’immagine e la reputazione degli Istituti. Siamo consci, ne sono certo, del bisogno che abbiamo di lungimiranza nelle scelte e di competenza e capacità di discernimento tra occasioni vere e occasioni false. Tra l’altro – lo dico per inciso – non sottovalutiamo l’impossibilità di andare a chiedere il contributo liberale del fedele, se non abbiamo prima fatto fino in fondo la nostra parte nell’amministrare responsabilmente i beni che ci sono stati affidati. 2.3. L’autonomia giuridica degli Istituti diocesani è senz’altro un valore: valutiamo quindi pure le soluzioni migliori per salvaguardarla. Ciò non diventi, però, in alcun modo una giustificazione che porti a frenare i passi per una loro diversa impostazione, un’organizzazione meno frazionata e frammentata, un riassetto che sul territorio faciliti un loro accorpamento, perlomeno nella parte gestionale, in modo da razionalizzare grazie alla creazione di enti con una sufficiente competenza e una sufficiente massa critica di beni per gestire in maniera più strutturata, più trasparente e più efficiente il patrimonio. La stessa Legge n. 222 prevede che, “mediante accordo tra i Vescovi interessati, possano essere costituiti Istituti a carattere interdiocesano” (art. 21). Riduzione razionale delle spese, federazione di servizi comuni – che permettono sia la qualità sia indebite assunzione di personale – ed efficienza sono obiettivi da perseguire con ostinazione se vogliamo superare le situazioni di criticità legate alla tentazione di andare avanti da soli. In fondo, si tratta di attivare quelle forme di collaborazione che, in un respiro di Chiesa, dovrebbero essere normali. Mettiamo, dunque, a frutto comune le esperienze e le pratiche migliori, quelle maggiormente affidabili e supportate da costanti risultati, per condividerle sul territorio e realizzare la fornitura di servizi mirati agli Istituti diocesani, andando incontro specialmente a quelli meno strutturati. Implementare i processi organizzativi rimane la via per assicurare un adeguato supporto di assistenza, all’interno di prospettive di omogeneità di gestione. In questo modo sarà più facile anche valorizzare il patrimonio degli enti religiosi e costruire insieme una via integrativa – rispetto all’attuale forma dell’8xmille – al sostegno economico alla Chiesa. Consentirebbe anche di poter liberare maggiori risorse per la carità come per il culto e la pastorale. 3. Opinione pubblica e identità ecclesiale Per completezza sarebbe necessario soffermarsi un momento anche sulle proiezioni del trend per il 2015 riguardante, oltre che un leggero calo del gettito IRE, le firme a favore della Chiesa. La previsione parla di una significativa riduzione del dato percentuale – si parla di 2 punti percentuali, passando dall’82,28% all’80,27%. Questa realtà ci impegna a trovare modalità per accrescere nell’opinione pubblica – a partire dagli stessi sacerdoti – una nuova sensibilità. Quello che mi sta a cuore – lo ribadisco – è la collaborazione di tutti gli Istituti diocesani, condizione fondamentale per ottenere una gestione meno rischiosa, più aderente alle nostre finalità, con maggiore trasparenza e migliori rendimenti. Su questa strada ci sarà possibile rispondere a testa alta anche a un’opinione pubblica particolarmente attenta e sensibile oggi quanto alla rigorosa e rispettosa gestione del patrimonio che ci è stato affidato. Su un piano più ecclesiale e di natura squisitamente spirituale, la trasparenza contribuirà a favorire anche le condizioni per evitare di cadere nella tentazione di legare indebitamente il nostro cuore all’avere, malattia che papa Francesco ha più volte chiaramente stigmatizzato. Con questi pensieri voglio augurarvi buon Convegno: a voi il compito, a partire da queste stesse giornate, di muovervi in tale direzione perché gli auspici possano risolversi in prassi condivise.
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