mercoledì 12 agosto 2009
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All’interno della religiosità popolare una processione rappresenta un evento sacro, una manifestazione comunitaria di fede. Ma a causa della congenita ambiguità dell’uomo, in cui convivono positività e negatività, la stessa può essere gestita in modo non ideale. Trattandosi di una festa religiosa è naturale che la guida di una comunità locale abbia tutto il dovere di sforzarsi di eliminare gli aspetti degenerati di una festa». Così don Nicola Tommasini, lucano, docente emerito di antropologia all’Università di Bari e autore di svariati volumi sulla religiosità popolare in Italia, commenta le vicende relative alla festa religiosa svoltasi a Maschito domenica scorsa.Don Tommasini, come si può interpretare l’atteggiamento di quei fedeli che contravvenendo alle disposizioni della Chiesa, si richiamano alla "tradizione"?Il cristiano, se vuole essere inserito nel contesto di una festa religiosa, deve accogliere con docilità quanto viene dal pastore della diocesi; se non lo fa palesa una mancanza di religiosità autentica. A Maschito i fedeli erano stati più volte avvertiti: conveniva esibire uno spirito di umiltà cristiana; invece si è voluto andare al di là di tutto. Il provvedimento del vescovo può apparire drastico, se visto dall’esterno, ma va considerato nel contesto del territorio e nelle scelte educative del pastore.Religiosità popolare e cultura popolare non corrono il rischio di sovrapporsi in eventi simili?Sì ma la religiosità popolare non si può identificare con la cultura popolare perché nella prima emerge l’aspetto teleologico che investe l’avventura religiosa dell’uomo e il rapporto con il sacro, nella seconda vengono fuori gli aspetti che amo definire archeologici: quelli psicologici, storici, culturali e sociali. Possiamo dire che la religiosità popolare non si identifica anche se vive e si incarna nella cultura popolare.La religiosità popolare è realtà non priva di ambivalenze...Sì, essa presenta caratteri particolari: è sentimentale, si affida facilmente alla spontaneità e non esula dal devozionismo. Positivi sono invece l’esperienza del sacro e il bisogno di senso che l’uomo avverte nel suo cuore. Aspetti rilevati anche da Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi – esortazione apostolica del 1975 – e da Giovanni Paolo II in numerosi discorsi soprattutto in America Latina. Tuttavia, per via del devozionismo, la religiosità popolare può presentare dei rischi come la carenza di valori teologici, la superstizione fino a più o meno velate forme di magia.Cosa può fare una comunità cristiana per vivere in modo autentico la religiosità popolare?Anzitutto c’è bisogno di evangelizzare la religiosità popolare. Il ruolo della religiosità popolare è importante e forse oggi è fra i pochi baluardi che possiamo contrapporre ad una secolarizzazione pericolosa che non è solo ideologica ma anche frutto di un materialismo ispirato alla concezione edonistica della vita. Questa cultura coltiva il «super individualismo»: l’uomo cioè quale unica fonte di verità. La religiosità popolare può aiutarci a riscoprire nell’incontro col Risorto il volto autentico dell’umano.
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