venerdì 12 ottobre 2018
Con loro santi due preti e un laico italiano e due religiose. Il libretto della celebrazione presieduta da papa Francesco
Sette nuovi santi. Ecco chi sono (con Paolo VI e Romero)
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Papa Paolo VI e l’arcivescovo martire Oscar Arnulfo Romero santi insieme. La loro canonizzazione avverrà domenica 14 ottobre in piazza San Pietro nel corso del Sinodo dei vescovi dedicato ai giovani. La Messa presieduta da papa Francesco inizierà alle 10.15. Tv2000 seguirà in diretta le celebrazioni a partire dalle 9.10. Alle canonizzazioni, in particolare di Paolo VI e monsignor Romero, Avvenire dedica nel numero di domenica in edicola un ampio speciale.

Al rito saranno presenti delegazioni di molti Paesi, tra i quali quelle italiana, guidata dal presidente Sergio Mattarella, e quella salvadoregna, guidata dal presidente di El Salvador, Salvador Sanchez Ceran. Sul sagrato ci saranno anche i miracolati, tra i quali la piccola bresciana Amanda Maria Paola Tagliaferro, nata il 25 dicembre 2014 al Policlinico di Borgo Roma a Verona, guarita nel grembo materno grazie alla preghiera rivolta a Paolo VI, e Cecilia Flores, la donna che, a un passo dalla morte, è stata miracolosamente salvata dall'intercessione di monsignor Romero. Sono attesi circa 70 mila fedeli, ha annunciato il prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, cardinale Giovanni Angelo Becciu.

QUI IL LIBRETTO DELLA CELEBRAZIONE CON LA BIOGRAFIA DEI SETTE NUOVI SANTI

Oltre a Giovanni Battista Montini (1897-1978) e al presule salvadoregno (1917-1980), il Pontefice proclamerà santi lo stesso giorno due preti e un laico italiani e due religiose (una tedesca e una spagnola): il lombardo don Francesco Spinelli (1853-1913), fondatore dell’Istituto delle Suore Adoratrici del Santissimo Sacramento; il campano don Vincenzo Romano (1751-1831), parroco di Torre del Greco in provincia di Napoli; il giovane operaio abruzzese Nunzio Sulprizio, la tedesca suor Maria Caterina Kasper (1820-1898), fondatrice dell'Istituto delle Povere Ancelle di Gesù Cristo; e la spagnola suor Nazaria Ignazia di Santa Teresa di Gesù (1889-1943), fondatrice della Congregazione delle Suore Misioneras Cruzadas de la Iglesia.

Paolo VI, il Papa che guidò in porto la barca del Concilio

Paolo VI, al secolo Giovanni Battista Montini (1897-1978), il Pontefice bresciano di Concesio che ha guidato la Chiesa universale dalla cattedra di Pietro dal 1963 al 1978, il grande timoniere del Concilio Vaticano II che grazie a lui giunse in porto, il Papa della Populorum progressio e dell’Humanae vitae ma anche della travagliata fase che visse la Chiesa nel dopo Concilio e del dramma del rapimento e dell’uccisione dell’amico Aldo Moro, il successore di Pietro che abbracciò il patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora I e visitò la Terra Santa poco dopo l’elezione al soglio pontificio, il formatore di un’intera classe dirigente italiana, l’uomo che guidò l’arcidiocesi di Milano (1954-1963) e volle il quotidiano Avvenire proprio cinquanta anni fa, era stato beatificato il 19 ottobre 2014 da papa Francesco.

Venerabile dal 20 dicembre 2012 dopo che papa Benedetto XVI ne aveva riconosciuto le virtù eroiche, sarà santo per il miracolo attribuito alla sua intercessione della guarigione di un feto, al quinto mese della gravidanza, nel 2014. La madre, S. M., della provincia di Verona, era a rischio di aborto per una patologia che avrebbe potuto compromettere la vita del piccino e della donna stessa. La signora fu convinta da un’amica, che era in contatto con un dottore devoto di Paolo VI, a recarsi a pochi giorni dalla beatificazione di Montini a Brescia, nel Santuario delle Grazie, per pregare il Papa. I successivi controlli medici attestarono la completa guarigione del feto. La bambina è nata e oggi sta bene. Il miracolo, come quello della beatificazione, riguarda la vita nascente. Una sorta di messaggio “soprannaturale” del Papa dell’Humane vitae (enciclica definita profetica da papa Francesco durante il volo di ritorno dalle Filippine, nel gennaio 2015), di cui ricorre proprio quest'anno il cinquantennale.

«Nei confronti di questo grande Papa – ha affermato Francesco durante il rito di beatificazione – di questo coraggioso cristiano, di questo instancabile apostolo, davanti a Dio non possiamo che dire una parola tanto semplice quanto sincera ed importante: grazie!». Francesco aveva ricordato le parole scritte da Montini in alcune annotazioni personali, dopo la chiusura del Concilio: «Forse il Signore mi ha chiamato e mi tiene a questo servizio non tanto perché io vi abbia qualche attitudine, o affinché io governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa, e sia chiaro che Egli, e non altri, la guida e la salva».

Romero, il martire che fu voce dei poveri in Salvador

Era la sera del 24 marzo 1980 quando Oscar Arnulfo Romero (1917-1980), arcivescovo di San Salvador, celebrava la Messa nella cappella dell’ospedale per malati terminali, dove viveva, per essere sempre vicino ai poveri. Uno sparo lo colpì sull’altare mentre consacrava l’ostia. Morì qualche minuto più tardi, all’età di 63 anni. La vigilia, in un’omelia in cattedrale, monsignor Romero aveva chiesto ai militari di non uccidere, anche se questo avesse significato disobbedire agli ordini. Il Paese era in preda a una terribile guerra civile, che avrebbe fatto 80mila mila morti su quattro milioni di abitanti, segnata dalla presenza di una destra sanguinaria che finanziava gli “squadroni della morte” per assassinare gli oppositori. Romero era un pastore che aveva a cuore il suo popolo. Possedeva il carisma della parola e della predicazione. Vedeva l’ingiustizia sociale del Paese, l’amara condizione dei salvadoregni, gli effetti della miseria sulla salute dei contadini. Si schierò per la giustizia, per una migliore distribuzione delle ricchezze. Davanti a qualsiasi tipo di violenza chiedeva con fermezza il rispetto delle leggi. I suoi oppositori, dopo aver tentato invano di farlo destituire da arcivescovo, gli aprirono la strada verso il martirio. Romero sapeva di essere in pericolo, ma restò con il suo popolo.

Meticcio, di piccola statura, come la maggioranza dei salvadoregni, di formazione conservatrice, cresciuto nel rispetto dell’autorità, era nato a Ciudad Barrios nel 1917. Da seminarista studiò a Roma dal 1937 al 1943, città per cui ebbe sempre un grande affetto come centro della cattolicità. Nominato vescovo ausiliare di San Salvador nel 1970 da Paolo VI, divenne arcivescovo di San Salvador nel 1977. Fu il contatto quotidiano con i fedeli, a cui Romero non s’è mai sottratto, a fargli prendere coscienza dell’iniquità del sistema sociopolitico dell’epoca, che “scartava” la maggior parte dei cittadini. Ben presto divenne “voce dei senza voce”, cioè dei poveri, grazie alle sue ampie omelie fatte di spiegazione dei passaggi biblici e d’informazioni sui fatti della settimana. Suo malgrado, l’arcivescovo divenne l’uomo più influente del Salvador. Romero era uomo di pace Disse un giorno: «Se Cristo avesse voluto imporre la Redenzione con la forza delle armi o con quella della violenza non avrebbe ottenuto nulla. È inutile seminare il male e l’odio».

Riconosciuto il suo martirio, ossia la sua uccisione in odium fidei, è stato proclamato beato in una solenne celebrazione in San Salvador il 23 maggio 2015. Il miracolo attribuito alla sua intercessione che lo porterà alla canonizzazione ha al centro una donna del Salvador, Cecilia Flores, che era alla sua settima gravidanza e che per una gravissima complicanza rischiava di morire dopo la nascita del piccolo. Il marito, trovando una Bibbia della nonna con un’immagine dell’arcivescovo, aveva invocato l’aiuto del presule. La mattina successiva, in clinica, l’uomo scoprì che gli organi interni della moglie avevano ricominciato a funzionare.

«Il martirio di monsignor Romero – ha detto Papa Francesco concludendo a braccio il discorso ai partecipanti al pellegrinaggio da El Salvador in Vaticano nell'ottobre 2015 – non fu solo nel momento della sua morte, ma iniziò con le sofferenze per le persecuzioni precedenti alla sua morte e continuò anche posteriormente, perché non bastava che fosse morto: fu diffamato, calunniato, infangato. Il suo martirio continuò anche per mano dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato. Lapidato con la pietra più dura che esiste nel mondo: la lingua».

Francesco Spinelli fondò le Suore Adoratrici del Santissimo Sacramento

Era nato il 14 aprile 1853 a Milano dove i genitori bergamaschi Bartolomeo e Emilia Cagliaroli erano a servizio dei marchesi Stanga. Tornato a Bergamo, concluse prima gli studi liceali e poi la teologia presso il Seminario cittadino. Ordinato prete nel 1875 a Roma ha un visione: una moltitudine di donne che adorano l'Eucaristia. Capisce che Dio ha un progetto su di lui, ma attende il momento giusto per realizzarlo. Ciò avviene a San Gervasio d'Adda, dove incontra Caterina Comensoli, giovane desiderosa di spendersi in una congregazione dedita all'adorazione dell'Eucaristia. Nel 1882 nasce il primo nucleo delle Suore Adoratrici del Santissimo Sacramento.

Nel 1889 a causa di malinterpretati problemi economici il sacerdote lascia la diocesi di Bergamo e, accolto dal vescovo di Cremona, monsignor Geremia Bonomelli, si trasferisce a Rivolta d'Adda, dove le sue figlie hanno aperto una casa. La fondazione si scinde: madre Comensoli fonda la congregazione delle Suore Sacramentine, don Francesco quella delle Suore Adoratrici del Santissimo Sacramento.

Il loro carisma le guida ad adorare giorno e notte Gesù nell'Eucaristia e a servire i fratelli poveri e sofferenti, nei quali "Ravvisare il Volto di Cristo". Spinelli muore il 6 febbraio 1913. Il 21 giugno 1992, nel santuario mariano di Caravaggio, Giovanni Paolo lo proclama beato.

Nunzio Sulprizio, protettore degli invalidi

Come ha detto qualcuno la storia di Sulprizio sarebbe stata adatta a un racconto di Dickens. Di origini umili e rimasto orfano da piccolo di entrambi i genitori, fu inizialmente cresciuto dalla nonna materna, a sua volta scomparsa quando il ragazzo aveva 9 anni, mentre uno zio lo avviò al mestiere di fabbro nella sua bottega di Pescosansonesco dove Nunzio era nato il 13 aprile 1817.

Proprio a causa della pesantezza del lavoro il giovane, di costituzione fragile, si ammalò di una grave patologia ossea. Per curarsi venne ricoverato in ospedale all’Aquila e poi a Napoli dove viveva uno zio militare che lo fece seguire da un colonnello medico. Le terapie però non riuscirono ad evitargli atroci sofferenze fino all’amputazione della gamba. Morì a diciannove anni il 5 maggio 1836. Malgrado i dolori terribili accettò sempre la malattia con pazienza e fede, tanto che già Leone XIII lo propose come modello per la gioventù operaia.

Il ragazzo sarà santo grazie al riconoscimento di un miracolo ottenuto per sua intercessione. «Si tratta della guarigione di un giovane pugliese di Taranto – ha spiegato, felicissimo, l’arcivescovo di Pescara-Penne, Tommaso Valentinetti l’8 giugno scorso quando il Papa ha autorizzato il decreto che riconosceva il carattere prodigioso dell’evento – coinvolto in un grave incidente stradale una decina di anni fa. Le lesioni cerebrali causate dal tragico impatto e i danni permanenti provocati dalla disgrazia, avrebbero dovuto provocare importanti riduzione motorie e invece l’intercessione del beato Nunzio, riconosciuto dal giovane nel sogno, lo ha guarito "inspiegabilmente" per la scienza e "miracolosamente" per la fede».ome detto la fama di santità di Sulprizio si diffuse rapidamente dopo la sua morte, alimentata dal racconto di chi poteva testimoniare il coraggio e la fede con cui aveva affrontato la malattia.

Riconosciuto venerabile nel 1859 da Pio IX e proclamato beato da Paolo VI nel 1963, le sue spoglie sono conservate in parte nel santuario eretto a Pescosansonesco presso la fonte di Riparossa, in parte nella chiesa di San Domenico Soriano a Napoli. La tradizione vuole che durante un terremoto che colpì l’Abruzzo la teca con le spoglie del prossimo santo si sia spostata per evitare la caduta di un grosso macigno che l’avrebbe distrutta. Nel santuario di Pescosansonesco vi è una parete piena di stampelle, appartenute a giovani invalidi. (Riccardo Maccioni)

Vincenzo Romano, icona dell'umiltà

Nato a Torre del Greco, a dieci chilometri da Napoli, il 3 giugno 1751, Vincenzo Romano è il parroco italiano che diventerà santo per avere praticato «bene il bene» nel quotidiano. Parroco per oltre trent’anni dal 1799 al 1831, anno della sua morte, presso la Basilica di Santa Croce, ha condotto l’esistenza di un normale sacerdote, ma profonde sono state le sue intuizioni pastorali. Innanzitutto la “Messa pratica”, cioè un libretto con il quale aiutava la gente a partecipare in maniera attiva alle celebrazioni in un tempo in cui la Messa veniva celebrata in latino e in cui li invitava a non assistere non da muti spettatori, ma comprendendo bene l’azione sacra.

«La proclamazione del Vangelo a tutti era la sua vera missione», spiega l’arcivescovo di Napoli, il cardinale Crescenzio Sepe. Una scelta che lo portò ad inventare la “sciabica”, che consisteva nell’avvicinare con crocifisso e campanello le persone, predicare e poi accompagnarle nella chiesa più vicina. «Seppe essere mite e umile di cuore – prosegue Sepe – parroco di pecore, pecora dell’unico Pastore».

Un modello per la comunità anche nella sua carità sociale, nell’organizzare e aiutare i pescatori di corallo, che a Torre del Greco erano e sono tuttora numerosi e bisognosi. E poi esempio per i tanti sacerdoti. «Da Torre del Greco al mondo per consegnare lo stile di pastore che seppe fare della carità mestiere e della compassione strumento di umana liberazione», aggiunge l’arcivescovo. Da sempre vicino agli ultimi, faticò assieme agli abitanti e agli operai per ricostruire la città andata distrutta dall’eruzione del Vesuvio del 15 giugno 1794. In particolare volle proprio la ricostruzione della Basilica di Santa Croce.

Sulla sua tomba, nella Basilica di Santa Croce, si fermò in preghiera anche san Giovanni Paolo II l’11 novembre 1990.

È stata la guarigione di Raimondo Formisano, un commerciante di frutti di mare ammalatosi di tumore, il miracolo avvenuto nel 1989 che gli ha aperto le porte della canonizzazione. I 14 figli di Formisano, infatti, conoscendo la devozione del padre per Vincenzo Romano cominciarono a pregare anche otto ore di fila. E Raimondo guarì. (Rosanna Borzillo)

Nazaria Ignazia March Mesa, voce degli ultimi e delle ragazze

Una religiosa piccola di statura ma dalla grande forza spirituale. Spagnola di nascita ma pienamente latinoamericana. Sempre dalla parte dei poveri perché ricca della carità che si nutre di fede e di preghiera. Nella vita di Nazaria di Santa Teresa di Gesù (al secolo Nazaria Ignacio March Mesa) tanti elementi in apparenza contrastanti si compongono in unità. Come succede a chi fa del Vangelo il proprio riferimento, la propria guida.

Per capirlo bisogna spostarsi a Oruro, nel nord della Bolivia, il piccolo centro minerario in cui l’allora giovane suora portò avanti la sua azione evangelizzatrice accompagnandola a uno straordinario intervento di promozione umana. In quella zona in cui arrivavano i bisognosi di tutto portò la Parola di Dio nelle miniere e nelle carceri, aprì mense e centri di accoglienza in cui si insegnava anche a leggere e scrivere, sostenne le lotte operaie e la promozione della donna, tanto da organizzare il primo sindacato femminile. Si può dire che in Bolivia prese forma concreta l’Istituto religioso che rappresenta la sua eredità più grande, quello delle Suore missionarie della Crociate Pontificia, poi Missionarie Crociate della Chiesa.

In realtà Nazaria era nata a Madrid il 10 gennaio 1889, figlia di un commerciante e di un cattolica non praticante che diede alla luce 18 figli di cui sopravvissero in 10. Trasferitasi in Messico con la famiglia per ragioni economiche a 17 anni, sulla nave che la portava in America Latina conobbe due “Piccole Suore degli anziani abbandonati” rimanendone molto colpita. Così entrò in quell’ordine operando presso l’ospizio Matias Romero a Città del Messico. Tornata a Palencia, in Spagna, per il noviziato, fu assegnata a Oruro in Bolivia, dove rimase dodici anni. Qui nel 1920 durante gli esercizi spirituali le sembrò di vedere che Gesù la cercava. Iniziava così un percorso di sempre maggiore crescita nella sequela di Gesù che lo portò a concepire il nuovo istituto religioso, fondato il 6 giugno 1925. Dalla Bolivia la fondatrice si trasferì in Argentina dove una volta di più promosse iniziative a favore soprattutto di poveri e ragazze.. Nel 1943 malgrado la salute malferma volle partecipare al Capitolo generale dell’Istituto che si tenne a Buenos Airese e qui incontrò la morte, il 6 giugno, a 54 anni. Proclamata beata da Giovanni Paolo II il 27 settembre 1992, la salma della religiosa è, per sua espressa richiesta a Oruro. (Riccardo Maccioni)

Caterina Kasper, povera tra i poveri

Caterina Kasper nacque nel villaggio di Dernbach, in Germania, il 26 maggio 1820. Per aiutare la sua numerosa famiglia, trascorse l’adolescenza in lavori umili come quelli dei campi, oppure spaccando le pietre che servivano per lastricare le strade. Nel 1842 perse il padre e un fratello: insieme alla madre, iniziò a compiere lavori di tessitura e, nel frattempo, aveva dovuto vendere la casa. Intanto continuava ad avere in cuore il desiderio di consacrarsi a Dio, sebbene non volesse entrare in nessuna famiglia religiosa esistente. Ne fondò una lei, appoggiata dai suoi parrocchiani.

Cominciò la vita comune con alcune compagne nel 1845: tre anni dopo, il giorno dell’Assunta, aprì la loro casa ai poveri del paese. Al nuovo sodalizio diede il nome di Povere Ancelle di Gesù Cristo, mentre lei, con la vestizione religiosa, aggiunse al proprio quello di Maria. Con la stessa tenacia degli anni giovanili, madre Maria Caterina seguì la formazione delle novizie e l’apertura di nuove case, anche all’estero, per aiutare gli immigrati tedeschi. Un infarto la raggiunse il 27 gennaio 1898: morì il 2 febbraio, all’alba. È stata beatificata da Paolo VI il 16 aprile 1978. Il 6 marzo 2018 papa Francesco ha riconosciuto un ulteriore miracolo per sua intercessione, aprendo la via alla canonizzazione.

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