mercoledì 7 giugno 2017
Le reazioni alla sentenza della Cassazione che aveva posto la questione di una morte dignitosa fuori dal carcere per Totò Riina.
L'arresto di Totò Riina (Ansa)

L'arresto di Totò Riina (Ansa)

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Pollice su, pollice verso: nell’arena della comunicazione, non solo social, stavolta il «mi piace » acquista sapore di sentenza. Totò Riina, dentro o fuori? Ha diritto il sanguinario capo assoluto di Cosa nostra di morire (sempre ammesso che a tale esito conduca il suo stato di salute) a casa sua? Oppure, per la legge di un inesorabile contrappasso, colui che è stato definito «la belva» deve subire fino all’ultim’ora il 41 bis nel reclusorio di Parma? Lunedì una sentenza della Cassazione, «ferma restando l’altissima pericolosità » di Salvatore u curtu e il «suo indiscusso spessore criminale», ha ritenuto però che debbano essere rivalutati i presupposti per concedere all’ottantaseienne numero uno della mafia siciliana il differimento della pena o gli arresti domiciliari per motivi di salute (benefici che il Tribunale di sorveglianza già aveva negato).

E subito dopo, com’era da attendersi, la controversa decisione ha dato stura a uno scroscio di commenti; politici in primis. «Quanti supplicano una morte dignitosa per Riina vadano a Piazzale Loreto e chiedano scusa», twitta pro domo sua il presidente del Movimento Nazionale Francesco Storace. «Prima della pietà c’è la giustizia. Prima della pietà c’è il rispetto per le vittime e le loro famiglie. Totò Riina è un assassino. Paghi fino alla fine» fa eco su Facebook la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. Il crescendo culmina con il turpiloquio di Matteo Salvini, leader della Lega Nord: «Ma vi rendete conto? Deve marcire in galera. Non rompetemi i c.... con i diritti umani, la sensibilità, la pietà. Vorrei vederli in faccia quei giudici che hanno emesso una sentenza del genere».

Peraltro in casa padana un certo pluralismo in materia esiste, se il governatore lombardo Roberto Maroni (pur subito dopo costretto a certi distinguo) dichiara: «C’è un livello di umanità che deve prevalere. L’ulti- mo atto della vita deve essere garantito in modo dignitoso anche al peggiore dei criminali». Anche Luciano Violante, già presidente della Camera e della Commissione antimafia, tiene a precisare che «la Repubblica non può rispondere alla mafia utilizzandone le stesse spietate logiche di vendetta». Roberto Giachetti, vicepresidente pd della Camera, si accoda: «C’è differenza tra lo Stato di diritto e la legge del taglione». E il leader radicale Marco Cappato: «La sentenza va semplicemente nel senso del rispetto delle regole». Diverse opinioni anche tra i magistrati. Giuseppe Ayala( già alla procura della Repubblica di Palermo) può dissentire dal collega procuratore antimafia di Catanzaro Nicola Gratteri, che aveva ammonito: «Un boss come Riina comanda anche solo con gli occhi»: «Se dopo 24 anni di 41 bis è ancora uno che comanda, sarebbe una sconfitta dello Stato», in quanto il fine del regime speciale è proprio interrompere «la comunicazione dal carcere con l’organizzazione esterna e la gestione del potere».

Numerosi coloro che pensano alle conseguenze di un atto di clemenza: «Sarebbe un autogol tremendo e gli italiani perderebbero definitivamente fiducia nello Stato» sostiene il deputato Mariano Rabino, presidente di Scelta Civica. «Con questa sentenza si manda un segnale estremamente ambiguo sia ai mafiosi che ai cittadini – concorda l’ex pm di Palermo Antonio Ingroia –. È questo il momento in cui lo Stato non deve mollare le redini». CarloVizzini, presidente del Psi: «La scarcerazione sarebbe l’ultimo scacco allo Stato da parte di una mafia che vive anche di questi segnali». Anche per l’esponente pd Emanuele Fiano «sarebbe un’offesa e un errore liberare Riina». E Rosy Bindi, presidente della Commissione Antimafia, aggiunge un argomento di opportunità: «È giusto assicurare la dignità della morte anche a Riina, che non ha mai dimostrato pietà per le vittime innocenti. Ma per farlo non è necessario trasferirlo altrove, men che meno ai domiciliari, dove andrebbe comunque scongiurato il rischio di trasformare la sua casa in un santuario di mafia».

Una voce particolare si guadagnano i parenti delle vittime, con accenti unanimi anche se non sovrapponibili. Rita Dalla Chiesa, figlia del generale Carlo Alberto, è pessimista: «Mio padre una morte dignitosa non l’ha avuta, l’hanno ammazzato lasciando lui, la moglie e Domenico Russo in macchina senza neanche un lenzuolo per coprirli. Sto insegnando a mio nipote ad avere fiducia nella giustizia e nella legalità, forse sto sbagliando tutto». Il fratello Nando Dalla Chiesa, oggi docente di Sociologia della criminalità organizzata, precisa un criterio pratico: «Non sono per il no di principio, ma occorrono fior di perizie per decidere se qualcuno stia davvero morendo: ne abbiamo visti troppi di malati che restano anni e anni ai domiciliari ».

Franco La Torre, figlio del politico e sindacalista Pio ucciso dalla mafia nel 1982, ritiene che una scarcerazione del 'capo dei capi' «sarebbe un’ulteriore ferita per le vittime». «È come se lo stessero graziando – conferma Tina Montinaro, vedova del caposcorta di Giovanni Falcone – e lo Stato non deve far passare il messaggio che dal carcere i boss pluriergastolani possano uscire, anche se solo per morire ». Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, conclude con una riflessione grave: «Riina fuori dal carcere farebbe venire il sospetto che qualcuno stia pagando le cambiali firmate 25 anni fa nel corso di una scellerata trattativa tra Stato e mafia».

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