
Il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan - Reuters
La Corte penale internazionale è sotto accusa. Anzi, sotto assedio. Non si era mai vista un’offensiva del genere, nei palazzi che hanno sede all'Aja. Ieri la Corte presieduta dalla giudice Tomoko Akane è dovuta intervenire con una nota ufficiale, condannando l’ordine esecutivo degli Stati Uniti e ribadendo l’impegno a «continuare a garantire giustizia e speranza a milioni di vittime innocenti in tutto il mondo».
Lo scontro internazionale scatenato dall’America di Donald Trump ha origini relativamente recenti ed è frutto di processi di delegittimazione costanti nel tempo. Gli alleati della Casa Bianca in questa battaglia hanno il nome dei leader di Paesi che non hanno sottoscritto lo Statuto, come Benjamin Netanyahu per Israele e Vladimir Putin per la Russia, inseguiti da un mandato d'arresto internazionale, e anche di Paesi che furono protagonisti di quell'intesa, come l'Italia che ieri non risultava tra i 79 Paesi firmatari dell’appello Onu contro le sanzioni finanziarie e sui visti ai giudici dell’Aja predisposti da Washington. L'impressione è di essere arrivati a un tornante della storia, in cui le conquiste giuridiche e morali avvenute in passato oggi non valgono più. Cosa è dunque davvero in gioco oggi? E come può la Cpi rispondere alle accuse di ritardi e inerzie rivolte anche da chi ne difende il ruolo e l'importanza?
Il paradosso della Corte penale internazionale, secondo Chiara Ragni, ordinario di Diritto internazionale alla Statale di Milano, risiede nel fatto che «è un gigante senza mani e senza gambe. Funziona solo nella misura in cui gli Stati che ne hanno sottoscritto l’atto fondativo cooperano». Secondo Luca Masera, ordinario di Diritto penale all'Università di Brescia, «il rischio reale oggi è l'insabbiamento di tanti casi aperti presso L'Aja. La Cpi deve dare aiuto agli Stati ma non può prescindere dalla loro collaborazione». Il venire meno di un sostegno pubblico finora indiscusso da parte di alcune grandi democrazie è un fatto grave, che oltre a minare la credibilità dell'istituzione, può avere effetti drammatici anche sull'amministrazione della giustizia. A oggi sono 31 gli imputati a piede libero (tra cui Putin, Netanyahu, Al Bashir, Gheddafi jr., lo stesso Almasri) 68 gli imputati per i quali è già in corso una procedura, 12 le inchieste condotte dall'Ufficio del Procuratore Karim A. A. Khan, svolte «raccogliendo ed esaminando prove, interrogando le persone indagate e interrogando le vittime e i testimoni, allo scopo di trovare prove dell'innocenza o della colpevolezza di un sospettato». La Corte penale internazionale, nella sua missione, ha il compito di indagare e, «ove giustificato, giudicare le persone accusate dei crimini più gravi che preoccupano la comunità internazionale»: genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e crimine di aggressione. In quanto organo giurisdizionale di ultima istanza, essa mira a integrare, e non a sostituire, i giudici nazionali.
«In tempi di sovranismo giudiziario - riprende Masera - è in corso una sfida che sarebbe stata impensabile fino a poco tempo fa: quella tra il diritto e la forza». «Diritto e politica spesso confliggono» riconosce Ragni. Quanto al merito dei procedimenti, va ricordato che «la Corte non prevede la celebrazione di processi in contumacia. Il presupposto è che la persona venga effettivamente arrestata». Qui iniziano i problemi. Roma ad esempio si è detta disponibile ad ospitare il premier israeliano, mentre il presidente russo è stato accolto con tutti gli onori recentemente in Mongolia, dove in realtà avrebbero potuto fermarlo. «Eppure le norme del Trattato dovrebbero prevalere sull’immunità garantita ai capi di Stato» osserva la giurista della Statale.
C'era una volta Norimberga, quando per la prima volta si affermò il principio secondo cui persino i capi di Stato e di governo possono essere chiamati a rispondere dei loro crimini. «Anche la guerra, per chi si occupa di diritto penale internazionale, si può giudicare» osserva Masera. La guerra fredda congelò ulteriori esperimenti di giustizia penale individuale, fino agli anni Novanta. Fu l'Onu a istituire i Tribunali “ad hoc “sui Balcani e sul Ruanda. In quel caso, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite decise di creare un Tribunale ad hoc, post factum. La volontà di far nascere, dopo una Conferenza internazionale svoltasi nella Capitale, la Corte penale internazionale segnò un passo avanti deciso, in un’ottica di prevenzione e deterrenza. «Si voleva dare l’idea che non ci potessero essere crimini che restassero impuniti» spiegano oggi gli esperti di giustizia penale individuale. È per questo che ieri tra i primi a reagire al diktat trumpiano c’è stata Amnesty International, da sempre dalla parte delle vittime. «La Corte ha un ruolo fondamentale nell’indagare sui crimini di diritto internazionale, spesso commessi da persone particolarmente potenti in situazioni in cui, se non venisse coinvolta la Corte, i loro autori beneficerebbero di un’impunità permanente - ha sottolineato Amnesty -. Le sanzioni sono un affronto ai 125 Stati membri che hanno deciso collettivamente che la Corte dev’essere in grado di perseguire efficacemente la giustizia».