mercoledì 31 gennaio 2024
Dopo oltre nove mesi non si vede uno sbocco nello scontro tra il presidente “de facto” Abdel Fattah al-Burhan e le Rsf guidate dal ribelle ex vicepresidente Mohamed Hamdan «Dagalo»
Una giovane madre di Khartum, sfollata con il figlio di pochi mesi in un campo a Wad Madani sulle rive del Nilo Azzurro

Una giovane madre di Khartum, sfollata con il figlio di pochi mesi in un campo a Wad Madani sulle rive del Nilo Azzurro - Fais Abubakr-Msf

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Trovare nuove rotte, nuove strade per raggiungere un popolo in fuga, oltre sette milioni e mezzo di persone che vivono la più grande crisi umanitaria al mondo. Crisi nascosta, nonostante le bombe, la fame, le epidemie. Sudan, cuore di un’Africa in cui i conflitti possono diventare infiniti e marcire nell’indifferenza, etichettati come polarizzazioni “etniche” e “tribali”, crocevia di interessi in cui potere e risorse sono spesso l’unica miccia, l’unica ragione di scontro. Le organizzazioni umanitarie hanno sempre meno accesso agli sfollati: la guerra tra esercito e paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf), scoppiata il 15 aprile dello scorso anno, non solo si alimenta anche di razzie agli aiuti, ma ostacola in ogni modo i soccorsi alla popolazione.

Metà dei 49 milioni di sudanesi, si stima, hanno bisogno di aiuti urgenti: l’insicurezza alimentare è in aumento. Gli sdoganamenti per le forniture in arrivo richiedono però fino a tre settimane, con ulteriori ispezioni sotto la supervisione militare che fanno passare ancora più tempo. Sul Mar Rosso, l’hub di Port Sudan, controllato dall’esercito e dove è teoricamente possibile ottenere permessi di accesso ad altre zone del Paese, è ormai difficilmente raggiungibile; Wad Madani, un altro hub di aiuti nella regione agricola di El Gezira, a sud-est della capitale Khartum, è finita nelle mani dei paramilitari. La stessa avanzata delle Rsf in questa zona ha provocato nuovi scontri sia con l’esercito che con gli ex ribelli dell’Splm-North nel Sud Kordofan. Per questo le organizzazioni umanitarie cercano ora di far passare i loro aiuti lungo altre rotte, dal Sud Sudan verso nord o dal Ciad direttamente nel Darfur, la regione occidentale sudanese già teatro di massacri negli anni scorsi e tornata ora a ribollire. «Abbiamo almeno sei grandi epidemie in corso, tra cui il colera – sottolinea Rick Brennan, direttore regionale per le emergenze dell’Oms -. Abbiamo anche focolai di morbillo e febbre dengue, di poliomielite derivata dal vaccino, di malaria e così via. E anche i livelli di fame stanno aumentando vertiginosamente a causa della mancanza di accesso al cibo e all’acqua».

Mentre entrambe le parti in conflitto – i militari fedeli al presidente de facto ed ex generale golpista Abdel Fattah al-Burhan e le Rsf guidate dal ribelle ex vicepresidente Mohamed Hamdan Dagalo, tra gli uomini più ricchi del Paese grazie al traffico dell’oro verso gli Emirati, che ora lo sostengono – negano di ostacolare gli aiuti, diplomatici e operatori umanitari sottolineano che rifornimenti e lavoratori vengono spesso presi di mira, mentre l’accesso a civili e sfollati viene limitato. «Pochissime strutture mediche rimangono funzionanti, privando tre milioni di abitanti di servizi salvavita – spiega Medici senza frontiere –. Per la prima volta in più di 90 giorni, è stato ora concesso un numero limitato di permessi di viaggio per consentire al personale umanitario di accedere ad aree controllate dalle Rsf. Finora, dal primo ottobre scorso non era stato concesso alcun permesso di viaggio per recarsi a Khartum». Per questo Msf ha lanciato un appello alle autorità sudanesi a non ripristinare le restrizioni, evitando la perdita di altre vite umane. «Stiamo assistendo a un aumento delle necessità causato dalle violenze, che hanno effetti devastanti sulla popolazione – sottolinea ad Avvenire Matt Cowling, responsabile affari umanitari di Msf in Sudan –. Ci stiamo occupando di cure di emergenza, anche con cliniche mobili per gli sfollati, di interventi contro le malattie trasmissibili e non, di servizi sanitari per mamme e bambini. E poi assistenza per i parti, potabilizzazione dell’acqua, donazione di medicinali, oltre a supporto logistico e formazione per lo staff sanitario locale. Ci troviamo davanti a ferimenti importanti, causati da esplosioni e proiettili: è chiaro che c’è una mancanza di protezione dei civili in questo conflitto. La maggior parte degli scontri avviene in zone abitate, il numero di sfollati enorme: il sistema sanitario era già estremamente fragile, ora i bisogni sono incalcolabili».

Secondo una stima della Ong Armed Conflict Location & Event Data, la guerra ha ucciso più di 13.000 persone (la stima Onu alza invece a 18mila le vittime, 15mila delle quali solo in Darfur) ; per l’agenzia delle Nazioni unite per le migrazioni (Oim), i 7,7 milioni di sfollati rappresentano «il più grande movimento di popolazione al mondo». L’esercito e le Rsf hanno condiviso il potere con i civili dopo la rivolta popolare del 2019 contro l’allora presidente-dittatore Omar el-Bashir. Nell’ottobre 2021, militari e paramilitari hanno organizzato insieme un colpo di stato estromettendo i civili dal potere, ma la loro coabitazione, che avrebbe dovuto avere durata limitata fino alle elezioni, è sfociata invece in un conflitto in cui hanno un ruolo tutt’altro che secondario le risorse del Paese, a partire dall’oro.

Di fatto, come ha evidenziato nei giorni scorsi anche papa Francesco, «dopo mesi di guerra civile, non si vede ancora una via di uscita». Nei giorni scorsi, il governo, allineato con l’esercito, ha respinto l'invito a un vertice dei Paesi dell'Africa orientale e ha rimproverato le Nazioni Unite per aver dialogato con il comandante delle forze paramilitari rivali. Di fatto, in questi mesi l’esercito sembra aver perso terreno, mentre il leader ribelle Dagalo ha girato le capitali africane per rafforzare la sua posizione diplomatica.
«Gli eventi in Sudan sono una questione interna», continua a ripetere il generale al-Burhan, che accusa i ribelli di crimini contro l’umanità: «Con loro non è possibile alcuna riconciliazione». Un cessate il fuoco in Sudan «è urgentemente necessario per consentire alle persone di ricostruire le loro vite con dignità – l’ultimo appello di Amy Pope, direttrice generale dell’Oim –. Non dobbiamo voltare le spalle alla sofferenza di milioni di persone colpite da questo conflitto devastante».

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