lunedì 28 aprile 2025
Fermato un 19enne per la morte di tre giovani nel centro siciliano: si cercano armi e complici. Perché è giusto chiedere giustizia senza farsi prendere dalla voglia di sistemare le cose da sè
Striscione in memoria delle vittime apparso a Monreale dopo il triplice omicidio

Striscione in memoria delle vittime apparso a Monreale dopo il triplice omicidio - ipa-agency.net

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Si cercano i complici e le armi che hanno portato al triplice omicidio di Monreale: nella sparatoria che sarebbe avvenuta all'una e mezza di notte tra sabato e domenica, hanno perso la vita tre persone. Lunedì mattina ha confessato l'omicidio Salvatore Calvaruso, 19 anni, che in un primo momento aveva detto di essersi solo difeso dall'aggressione dei giovani di Monreale.


Eravamo ancora addolorati per la dipartita di papa Francesco quando siamo stati raggiunti dall’ assurda notizia della strage di Monreale. Tre giovani uccisi e altri feriti, in piazza, per banali, banalissimi motivi. Una lite scoppiata tra giovani senza quasi un movente degno di questo nome. Una lite da stroncare sul nascere. Invece, Salvatore, un giovane, da un solo anno maggiorenne, insieme a un amico, incapaci di gestire quella che hanno ritenuta essere un’offesa imperdonabile, incapaci di esercitare anche in minima parte la virtù della prudenza, fagocitati da quel maledetto delirio di onnipotenza che danno le armi quando vengono impugnate, hanno fatto una strage. A pochi passi di una delle meraviglie del mondo, quel Duomo normanno, patrimonio dell’umanità, i cui mosaici bizantini, di una bellezza più unica che rara, mandano in visibilio milioni di persone che da ogni parte del mondo vengono a contemplarli. Chissà se gli assassini abbiano mai passeggiato con il naso all’insù sotto quelle navate. Non aveva ancora 20 anni, Salvatore, le vecchie guerre di mafia, quindi, le conosceva solo per sentito dire. Ne era rimasto ammaliato o orripilato? Non era ancora nato quando, nel 1992, vennero trucidati a pochi mesi di distanza Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli uomini e le donne delle loro scorte. Non era ancora nato quando il 23 novembre del 1993 un ragazzino di 13 anni, Giuseppe Di Matteo, veniva rapito per ordine del mafioso Giovanni Brusca, vecchio amico di suo padre, Santino, per indurlo a fare un passo indietro dalla decisione di voler collaborare con la giustizia. Santino, quel passo, non lo fece. Per questo motivo il povero Giuseppe fu tenuto prigioniero per 779 giorni, prima di essere strangolato e sciolto nell’acido nelle campagne di San Giuseppe Jato. La mafia ha fatto spavento. Dopo le stagioni delle stragi, dopo la cattura e la morte di Bernando Provenzano e Totò Riina, i corleonesi più spietati e sanguinari che l’Italia abbia conosciuto, sembrò che le cose si mettessero meglio, salvo prendere atto che, forse, avevano solo cambiato pelle. Uccidere non conviene. Il sangue versato fa rumore. I morti ammazzati richiamano l’attenzione delle forze dell’ordine, della politica, della società, finanche di quelle persone che, da dietro le quinte, stanno a guardare come evolve la situazione. No, non conviene fare i gradassi. La mafia vuole i soldi, e se riesce ad averli senza fare storie, tanto meglio. Il silenzio è il migliore alleato dei mafiosi. A Monreale fu ucciso, nel 1980, proprio durante la festa del Crocifisso il capitano Emanuele Basile, un ufficiale di 30 anni. Da ieri questa città bella e sfortunata è ritornata agli onori della cronaca nera, dopo l’uccisione di Andrea, Massimo, Salvatore. Sgomento in tutta la città. Chi era il giovanotto arrestato che ha seminato terrore e sangue? Viene da uno dei quartieri problematici di Palermo, lo Zen. L’acronimo “Zen” sta per Zona Espansione Nord, un quartiere periferico senza nemmeno un nome. Pochi giorni fa ho ricevuto un messaggio da un mio confratello, parroco in uno di queste zone, che mi ringraziava perché il “Modello Caivano” aveva fatto arrivare anche nella sua periferia un po' di soldini con cui correre ai ripari degli scempi perpetuati negli anni. Sono stato contento. Lunedì scorso. Ho appena fatto ritorno da una scuola di Avellino, dove sono stato invitato a parlare agli studenti. Legalità, azzardo, bullismo, alcool, droghe, gioia di impegnarsi, valori. Occorre informare e formare i ragazzi. Non è facile, alla radice dei più ribelli e problematici, il più delle volte, manca la famiglia, prima comunità in cui si impara il rispetto e l’amore per se stessi e per gli altri. Anche noi formatori non sempre siamo all’altezza della missione. I ragazzi occorre innanzitutto amarli. Le città – tutte le nostre città – devono convincersi che o si avanza tutti insieme oppure continueremo a lamentarci. È del tutto inutile fuggire verso lidi ameni se lasciamo a se stessi i quartieri degradati; è del tutto inutile far studiare i figli nei migliori atenei, se non ci preoccupiamo anche dei ragazzi allo sbando. Si avanza insieme. Non sia mai detto abbastanza: si avanza insieme. Ai genitori, alle famiglie, agli amici, dei giovani barbaramente falciati a Monreale va la nostra solidarietà, il nostro affetto, la nostra preghiera. Una cosa, però, mi permetto di suggerire, a bassa voce e con grande imbarazzo. Ho sentito Giacomo, il papà di una delle vittime dire durante un’intervista: «Voglio giustizia. Se non me la date, me la faccio io». No, fratello. Piangi pure tutte le tue lacrime, grida forte il tuo dolore, prendi a calci le pietre del selciato e i muri. Prega, impreca, cerca conforto nei tuoi cari e nel Vangelo, ne hai tutto il diritto. Troppo grande è la ferita che ti è stata inferta. Troppo amaro il fiele che sei chiamato a ingoiare. Ma, ti prego, rinnega quella frase. Fa tanto male a chi la sente, soprattutto ai bambini, ai ragazzini, ai giovani. Il fuoco non si spegne con il fuoco. Continuiamo ad avere fiducia nella magistratura, sproniamo, piuttosto i magistrati e la politica a non mettere a dura prova la nostra pazienza per i tempi lunghi e snervanti che accompagnano i processi. Continua a chiedere giustizia, noi lo faremo insieme a te. Ma non dire: «Me la faccio io». Siamo un Paese democratico e civile. Crediamoci, anche quando, come oggi, la rabbia e lo sconforto prendono il sopravvento e le lacrime ci offuscano gli occhi e il cuore.

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