Il fuciliere Ivàn e gli altri: al fronte, nella neve, con i soldati ucraini
di Nello Scavo, inviato a Lyman (Ucraina)
La guerra, che si combatte anche con i droni, resta crudele e terribile nelle storie dei giovani che avanzano armati e impauriti. Non sono automi, stanchi e provati da quattro anni di battaglie, tengono le linee. «Per sopravvivere non dobbiamo farci ammazzare. Dobbiamo uccidere per primi»

Vira nervosamente a bassa quota. Cerca un bersaglio. Soldati o civili. Non fa differenza. D’inverno gli alberi spogli non sono più un riparo. Il fuciliere Ivàn esce allo scoperto. Una raffica breve, e il piccolo drone russo caricato con una granata esplode in volo. «Sei un cretino», gli urla il sergente: «Adesso sapranno che siamo qui».
Corriamo via in direzioni diverse, prima che piombino altri “Fpv”, i droni videoguidati. Lontano dalla prima linea, la guerra dei dispositivi telecomandati serve a consolare gli sguardi di chi osserva i filmati della propaganda militare. Come a sterilizzare le immagini di morte, illudendosi che in fondo la battaglia sia più una lotta tra automi. Invece sul dissestato sentiero del fuoco, che per 1.200 chilometri percorre a mezzaluna da nord a sud l’interno confine orientale ucraino, la guerra è ancora quella degli uomini, della bassa truppa che un giorno è descritta come eroica e quello dopo è carne da cannone. Donne e uomini senza le mostrine dei comandanti, ma che nei dispacci dal fronte si sentono raccontati meno delle macchine da combattimento.
«Meno male che è arrivato “Nonno Gelo” – borbotta Ivàn dopo essersi preso il lisciabusso dell’attempato sergente –. La neve non ci fa andare avanti, e anche i maledetti “rashist” fanno fatica a muoversi nel fango». Nelle grandi città si fanno discorsi. Al fronte si va avanti a epiteti. «Rashist», sta per russo e per fascista. Si battono da quattro inverni. E non sono più i ragazzi sbarbati di prima. La morte è nell’aria. Ma è meglio che d’estate: «Si sta come nel freezer, ma almeno non si sente più il puzzo dei cadaveri», dice Ivàn che già è magro di suo, ma dentro alla mimetica imbottita di munizioni e vodka sembra uno spaventapasseri che avrebbe bisogno di un acquazzone per togliersi il fango dalla faccia.
Si marcisce così, in questa guerra. «Da morti facciamo tutti la stessa puzza», ripete il ragazzo che si vanta di avere abbattuto con il suo fucile automatico una decina di ordigni volanti nell’ultimo mese. Camminare per i sentieri che già d’autunno diventano palude, è come avvicinarsi nella trappola di una ragnatela invisibile, finché non ci finisci imprigionato. Per chilometri si intrecciano matasse di sottile filo trasparente. Nelle giornate di freddo estremo è facile scambiarle per quelli che qui chiamano «capelli di ghiaccio», strani ciuffi bianchi che d’inverno appaiono nel sottobosco sopra a legna marcescente, carcasse di animali, e resti di uomini. Sono chilometri e chilometri di fibra ottica. Serve ai russi per comandare a distanza i droni impedendo che vengano intercettati dai dirottatori informatici ucraini. E viceversa.
Un altro anno di frequenti accessi a ridosso della terra contesa, quella che Mosca vuole con le buone e con le cattive, lasciano sul taccuino i racconti di chi in guerra c’è finito per mestiere, di quanti hanno scelto volontariamente di fare da argine, e di chi ne avrebbe voluto fare a meno e sa che c’è un solo modo per tornare vivo: «Non farsi ammazzare, e uccidere per primi». Lo dice Maksym, che la guerra se la sarebbe evitata, se non fosse che «sono venuti a prendermi a casa per portarmi fino a qui. Prima avevo detto che se mi avessero convocato in caserma non mi sarei tirato indietro – racconta –, ma nessuno dal lungomare di Odessa può immaginare questo inferno». L’intercalare, a dire il vero, è quello di gente che non ha tempo per girare intorno alle parole. Maksym non ricorda il giorno dell’ultima doccia né di un brodo caldo. Nella buca che chiama trincea controlla il fiato, perché anche la condensa del respiro può essere avvistata a distanza. Conta le ore che lo separano «dalla stazione». Non per riprendere la via di casa, ma per i promessi due giorni di libera uscita. Si darà una ripulita e poi andrà a Kramatorsk, altra preda nel mirino di Mosca, dove nel fine settimana sbarcano da treni e minibus le fidanzate accolte con bouquet e dolci. Come Vera, che la fioraia sul primo binario se la ricorda ancora: «Quella volta aveva un vestito giallo e le scarpe alte». Serhyj, tenente della fanteria meccanizzata, le dava appuntamento sempre allo stesso negozio di rose e cioccolatini italiani. Anche la sera prima. Il giorno dopo non si è presentato. Dicono sia saltato su una mina.
Lyman non è molto lontana. Da lì non si può più andare avanti. «Troppo pericoloso. Proibito», insistono dal checkpoint. Dagli scheletri dell’agglomerato urbano, dove le case abbandonate sono diventate avamposti e solo da qualche vecchia foto di famiglia si riconosce il tempo di prima della guerra, sbucano due grossi fuoristrada blindati, di quelli visti nelle battaglie tra le dune desertiche. Guerre lontane che si affacciano anche qui. Pochi giorni fa abbiamo compreso il perché di quel «proibito». Il Terzo corpo d’armata, secondo i comunicati ufficiali, avrebbe sbaragliato nel contrattacco un intero reggimento russo di duemila uomini. Krylo, che in questi anni abbiamo incontrato più volte con la sua piccola squadra di dronisti e cecchini-incursori, ci mostra dal suo palmare i video trasmessi dai velivoli. «Cerchiamo di arrivare a meno di due chilometri dalle posizioni russe e ci appostiamo con i tiratori – spiega –. Prima lanciamo i droni sulle loro trincee e appena saltano fuori per scappare gli spariamo con i fucili di precisione». Quello nel fodero è lungo 120 centimetri e lo ha già coperto di frange bianche con cui mimetizzarsi tra gli ammassi di neve. I filmati mostrano le bombe incendiarie sganciate dai silenziosi “Fpv” ucraini. Non hanno microfoni per sentire le urla dei militari russi ridotti a torce umane. Spesso la microcamera inquadra il terrore sulla faccia del soldato, quando si volta di scatto, e scopre che è finita.
Alla sera, una volta da soli a chiacchierare come accadeva prima che si arruolasse, la maschera di ferro del comandante cade. Riappare il volto stanco del ragazzo invecchiato in fretta: «Mi ricordo la faccia di ognuno di quelli che ho ammazzato. Li odio ancora. Perché sono venuti a morire?». Non sa come finirà la guerra. «Se riusciremo a fermarli, allora sarà servito a qualcosa. Ma se gli consegneremo anche i territori che abbiamo liberato tre anni fa, avremo perso». Non è solo il timore della disfatta, né quello della morte. È il terrore per l’insonnia che verrà. La distanza che promettono le macchine non protegge chi ha premuto il pulsante: «E dovrò guardare i miei figli pensando di avere ucciso per niente».
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