Meno diplomazia, più armi: il 2025 è stato l'anno della guerra

Da Ursula von der Leyen a Donald Trump, da Rearm Europe ai tagli di UsAid: i piani e i soldi, soprattutto in Occidente, si sono spostati dal "soft power" all'"hard power". Un crinale su cui ci eravamo già indirizzati, ma che adesso appare sempre più pericoloso
December 31, 2025
Meno diplomazia, più armi: il 2025 è stato l'anno della guerra
Una parata militare avvenuta in Polonia negli anni scorsi
«Questo è il tempo di costruire la pace attraverso la forza». A marzo, Ursula von der Leyen ha sintetizzato così la nuova direttrice strategica dell’Europa. Una scelta obbligata – è il leitmotiv dominante – a causa delle ombre che aleggiano sul Continente. In realtà, si tratta di un’opzione politica. Costruita, come tutte le opzioni, su una serie di decisioni intermedie volte a spostare risorse dal soft power – diplomazia, cooperazione internazionale, aiuti allo sviluppo – all’hard power, cioè la guerra, minacciata o agita, fino a rendere quest’ultima l’unico strumento di risoluzione delle controversie globali. Non lo è, in realtà, come la storia, anche recente, insegna. Lo diventa, però, quando la politica se ne convince o vuole farlo, e riesce a persuadere, al contempo, l’opinione pubblica. Per questo, i sociologi statunitensi William Strauss e Neil Howe hanno calcolato in 85 anni la cadenza tra le grandi conflagrazioni belliche. Il tempo dell’oblio dell’orrore: quanto, cioè, una generazione impiega per rimuovere l’esperienza e il trauma dalla memoria collettiva.
Il riarmo massiccio ne è la cartina di tornasole. Dalla fine della Guerra fredda – come l’ultimo rapporto dello Stokholm international peace research institute (Sipri) -, mai la spesa militare era lievitata a ritmo tanto sostenuto: + 9,4 per cento nel corso del 2024. Un balzo record, preceduto, tuttavia, da un incremento costante. Già nel 2015, gli acquisti europei erano lievitati dell’83 per cento. La corsa agli armamenti è, dunque, precedente all’irruzione di Donald Trump alla Casa Bianca. Questa sembra esserne piuttosto il più vistoso degli effetti collaterali nonché un’ulteriore e decisivo acceleratore. Il punto di svolta è stata l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia all’inizio del 2022 e la scelta dell’amministrazione Usa – all’epoca guidata da un democratico – e dei governi Ue – in buona parte progressisti –, di fronte all’aggressività del Cremlino, di giocare tutta la partita o quasi sul confronto sul campo di battaglia. Con il ritorno del tycoon, la “dissuasione muscolare” è diventata principio fondante delle relazioni internazionali e l’instabilità s’è fatta estrema. Ora più che mai, le armi sono diventate la panacea al dilagare dell’ansia globale. Poiché, come i teorici dell’economia insegnano, le risorse degli Stati sono limitate, ingenti investimenti in difesa implicano lo spostamento di fondi da altri settori. A partire da quelli “concorrenti”.
Tutto ciò che è associato al soft power, dunque. Anche in questo caso, Trump ha catalizzato una tendenza, portandola al parossismo, come indica lo smantellamento di UsAid. Come rileva l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), per la prima volta in trent’anni, Francia, Germania, Regno Unito e Usa, hanno tagliato gli aiuti causando un calo complessivo del 9 per cento. E, presto, sempre secondo le stime dell’organizzazione, la sforbiciata potrebbe quasi duplicare, arrivando al 17 per cento. Gli States hanno ridimensionato i contributi umanitari per le Nazioni Unite a quota 1,7 miliardi: un decimo rispetto a quanto versato negli anni precedenti.
La contrazione della cooperazione si inquadra in un processo più ampio. La Gran Bretagna ha attuato uno “snellimento” dell’apparato diplomatico, con relativa riduzione del personale di una quota compresa tra il 15 e il 25 per cento. I Paesi Bassi hanno diminuito il budget delle missioni estere e prevedono la rinuncia a cinque ambasciate e consolati. Anche il Servizio europeo per l’azione esterna è in fase dieta: si profila un ridimensionamento di dieci delegazioni Ue con una perdita di circa 150 impieghi. Washington, ovviamente, ha fatto le cose in grande: a luglio, il dipartimento di Stato ha licenziato 1.300 dipendenti e lasciato vacanti – queste le cifre dell’American foreign service association – 85 incarichi da ambasciatore sui 195 totali: 60 di questi non sono stati nemmeno ancora nominati dal presidente. Il quale, alla rete tradizionale e ai negoziatori di professione, preferisce fedelissimi di altra estrazione, vedi l’immobiliarista Witkoff, “alfiere” delle trattative statunitensi, dall’Ucraina al Medio Oriente. Nel mentre, ventisette rappresentanze rischiano di chiudere. Poco male, non si stanca di ripetere il tycoon che,Un grave errore, sostengono gli specialisti, poiché, come in fisica, il vuoto in geopolitica non esiste. Al disimpegno occidentale fa da contraltare un crescente attivismo di Ankara, Pechino e perfino Mosca. Segno che, forse, il “soft power” non è proprio uno spreco di denaro.

© RIPRODUZIONE RISERVATA