domenica 11 agosto 2019
L'impegno (anche politico) della fondatrice del Cav della Mangiagalli, a Milano per l'emergenza dell'interruzione volontaria di gravidanza
Presentazione del libro di Paola Marozzi Bonzi all'Universita Cattolica con monsignor Mario Delpini (Fotogramma, Maurizio Maule, Milano - 2018-11-06)

Presentazione del libro di Paola Marozzi Bonzi all'Universita Cattolica con monsignor Mario Delpini (Fotogramma, Maurizio Maule, Milano - 2018-11-06)

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Nella prefazione dell’autobiografia di Paola Bonzi – 'Per un bambino' (Europa Edizioni, 2018) – l’allora presidente del Movimento per la vita, Gianluigi Gigli, definisce l’avventura politica della fondatrice del Cav Mangiagalli alle elezioni del 2008, quando decise di correre nella lista 'Aborto? No grazie' di Giuliano Ferrara, «generosa quanto donchisciottesca».

Può sembrare una sottolineatura negativa per un esperimento politico che al di là del numero ininfluente di voti raccolti dalla lista – circa 135mila – ebbe il merito di far uscire l’emergenza aborto dalla cerchia ristretta degli addetti ai lavori e di imporla come tema di rilevanza nazionale in un momento in cui quasi nessuno aveva più il coraggio di ricordare la tragedia silenziosa dell’interruzione di gravidanza. D’altra sarebbe difficile trovare una definizione più azzeccata per l’impegno di Paola Bonzi che, soprattutto sul piano sociale e politico in senso lato, è sempre stato contrassegnato da una generosità tanto estrema e controcorrente da apparire velleitaria ai più. E, allo stesso tempo, da una carica di 'donchisciottismo' benefico perché disorientante e difficile da contestare.

Chi potrebbe affermare che la prevenzione all’aborto, realizzata con numeri sorprendenti al Cav Mangiagal-li, non possa essere estesa un giorno a tutte le donne che non possono portare a termine la gravidanza per motivi economici, culturali, sociali? E che questa prevenzione non sia un bene collettivo? Ed è stato così fin dall’inizio. Come non definire 'donchisciottesca' l’idea di cinque assistenti sociali, Paola Bonzi in testa, di mettere in piedi un Centro di aiuto alla vita nel 1980 a Milano (quello alla Mangiagalli arrivò 4 anni dopo), alla vigilia della consultazione referendaria per l’abro- gazione della legge sull’aborto che si sarebbe svolta poi il 17 maggio dell’anno successivo? E non poteva sembrare una sfida contro i mulini a vento dell’ideologia e dell’egoismo sociale la pretesa di raccontarne gli obiettivi nelle piazze di quei mesi, dominate dall’ultrasinistra illiberale e dal femminismo più oltranzista?

«Eppure com’era affascinante quel lavoro portato avanti da posizioni di minoranza. Eravamo in pochi – ha spesso ricordato la fondatrice del primo Cav di Milano – ma mentre tutti urlavano slogan violenti, noi ci dedicavamo alla formazione etico- scientifica sui temi della vita nascente, della genitorialità, del rapporto di coppia».

Difficile misurare quanto abbia pesato politicamente la consapevolezza di dover comunque andare controcorrente, di proporre strade diverse rispetto alla 'soluzione facile' dell’aborto, quanti percorsi di bene, quanti interrogativi abbia diffuso nelle coscienze. Traguardi rilevanti certo, per quel Cav ambrosiano che avrebbe potuto rappresentare un punto d’arrivo per tanti ma non per Paola Bonzi che soltanto quattro dopo, era il 1984, mette a fuoco l’esigenza di portare un elemento di discontinuità nel cuore di quella clinica Mangiagalli che già all’epoca aveva il triste primato delle interruzioni di gravidanza. Impresa, questa sì, generosa e donchisciottesca vista la sproporzione di forze e l’apparente indifferenza delle istituzioni sanitarie.

Eppure, 35 anni dopo, quel piccolo avamposto al terzo piano dell’ospedale milanese ha svolto un ruolo politico tanto silenzioso quanto dirompente. Non solo ha salvato tante vite, ma ha costretto a pensare, a rivedere posizioni apparentemente inossidabili, a riconsiderare luoghi comuni su concetti decisivi come libertà, amore, donna, dono, vita. La forma piú alta della politica. Grazie Paola.

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